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A bordo della Sea Eye: «Così si salvano 109 vite»

L'eccezionale racconto della nostra giornalista imbarcata sulla nave umanitaria che sta trasportando verso Napoli oltre cento migranti: «Il carburante non ha un odore normale. Mi dicono che è molto più forte, pare faccia andare i motori più veloci ma poi si surriscaldano, si bruciano, non ripartono e le barche restano in avaria con taniche piene, posizionate al centro che si rovesciano, si mescolano e piano piano fanno penetrare il loro contenuto ovunque mentre i suoi fumi salgono, entrano nei polmoni, gonfiano le gole, rendono il respiro doloroso e offuscano la mente»

di Martina Morini

Ci sono diversi modi in cui una barca in pericolo può chiedere aiuto. Può avere un telefono satellitare a bordo, può essere avvistata da una nave in transito, può riuscire a fare una chiamata oppure può non verificarsi nessuna di nessuna di queste condizioni e può rimanere in mare giorni, alla deriva senza che nessuno si accorga del suo dramma, finché tutta la vita che trasporta si spegne lentamente.

La mattina del 2 febbraio, dopo giorni di maltempo l'elicottero di Sea Bird che pattuglia il mediterraneo torna a volare e individua una barca in difficoltà al confine tra la zona Sar maltese e quella libica. La Sea Eye 4 è a sette ore di navigazione ma è l'unica nave di soccorso in quel momento e quindi cambia la rotta e a velocità massima, si dirige verso il punto indicato.

Sono quasi le 5 del pomeriggio quando raggiungiamo finalmente le coordinate indicate. I due gommoni di salvataggio si staccano con a bordo un un team di tre persone ognuno e raggiungono per primi il target. Io sono nel ponte di comando quando il capitano riceve l'assessment dai ragazzi. Max ha 29 anni, un ciuffo di rasta lunghissimi e occhi azzurri enormi, è sua la voce ferma che dalla radio comunica l'assessment: trentadue persone, sei donne, quindici minori, dodici minori non accompagnati e un corpo. Dopo pochissimo una chiamata di rettifica, due corpi. Due corpi. Quella che abbiamo davanti è una di quelle barche in cui non si è verificata nessuna di quelle condizioni fortuite per giorni e in cui la vita ha già cominciato a spegnersi. É un barchino scarno, quasi arrugginito, poche decine di centimetri di metallo galleggiano fuori dall'acqua, sembra impossibile che qualcuno abbia pensato di affidargli la propria vita e quella dei propri figli per attraversare il mediterraneo. Eppure, trentadue persone hanno visto in quella latta pericolante qualcosa di meglio di quello che avevano in quel momento, ci hanno visto la salvezza.

Penso alle leggi fatte in stanze sterili lontane da qua, ai commenti gradassi sui social sotto le notizie del salvataggio, alle persone che mi dicono “ma cosa ci vai a fare?”, ci penso davanti a questi corpi straziati ma pulsanti, sento quanta vita e quanta disperazione li ha portati qua, quanta esasperazione deve essere passata nelle loro vene e so che capisco che nessuno li può fermare, tutte le leggi e l'odio non avranno mai la loro stessa forza

Quando la nave madre si avvicina al luogo del salvataggio il vento porta a bordo un odore che non si staccherà più da me, che sentirò ad ogni sorsata d'acqua, nel letto, nel cibo, nelle ore e nei giorni a seguire. L'odore del carburante, l'odore dei vestiti inzuppati di urina, acqua di mare, odore di paura.

Il tempo che ci mette il primo gommone di salvataggio a trasbordare le persone è lunghissimo, la teoria dice prima le donne, i bambini, le persone fragili. Dal primo imbarco si capisce l'entità del salvataggio. Il primo a salire a bordo è un ragazzo, viene issato con le corde, tutto l'equipaggio è ancora pieno di forze e adrenalina, il corpo sale velocemente, sdraiato sul ponte sembra solo addormentato. É incosciente e lo resterà finché non verrà evacuato la mattina del 3 febbraio. Di lui non sapremo mai niente, nessuno viaggiava con lui, nessuno ricorda il suo nome. Solo una viso addormentato, giovane, una ventina d'anni e delle mani lunghe quello che ricorderemo di lui.

Issare i naufraghi con le corde è un eccezione nei salvataggi ma in questo è la norma, nessuno riesce a camminare, nessuno può salire la scaletta da solo. Gli viene messa un'imbracatura e arrivano sul ponte, si accasciano al suolo, come se fossero vuoti, tremano, le mani e i piedi sono deformati dal gonfiore, dalle ustioni del carburante, dai giorni di immobilità e come scopriremo dopo poco, dall'acqua di mare che da qualche giorno hanno cominciato a bere. Hanno lasciato le coste della Tunisia il sabato mattina precedente, il 28 gennaio ma il loro viaggio cominciava molto prima dalla Costa d'Avorio nella maggior parte dei casi. La pelle sembra si possa strappare da un momento all'altro. Il ponte della nave madre, illuminato a giorno nel buio di una notte nel Mediterraneo diventa un teatro di guerra. Tutti sono casi gravi, tutti sono urgenti.

Taglio un paio di pantaloni bagnati dalle gambe di una ragazza, non si riescono più a sfilare, troppo bagnati, troppo gonfi i suoi piedi. In origine dovevano essere rosa shocking, marca Tally Welly, una di quelle marche di fast fashion che si trovano nelle strade principali di tutte le città. Li taglio via e un pezzo della sua pelle ci rimane attaccato. Più salgo con le forbici e più quella carne non mi sembra niente di vivo mentre lei si dimena senza troppa energia.

Aisha non vuole che le tolga il velo. É sintetico, nero completamente intriso di carburante, lungo e pesante. Trema, ha gli occhi stanchi e gonfi ma non vuole perdere quel pezzo di stoffa, regalo di sua madre. Le prometto che non lo perderò mentre le sfiliamo quattro strati di abiti che nascondono piaghe e bruciature di carburante. Il carburante non ha un odore normale. Mi dicono che è molto più forte, pare faccia andare i motori più veloci ma poi si surriscaldano, si bruciano, non ripartono e le barche restano in avaria con taniche piene, posizionate al centro che si rovesciano, si mescolano e piano piano fanno penetrare il loro contenuto ovunque mentre i suoi fumi salgono, entrano nei polmoni, gonfiano le gole, rendono il respiro doloroso e offuscano la mente. Molti di loro delirano, pronunciano nomi, frasi apparentemente incomprensibili in lingue che non capiamo, non rispondono in modo logico alle domande, guardano un punto imprecisato dietro di me.

La luce alogena dall'altro, rende tutto estremamente plastico e teatrale. Le nostre tute arancioni fosforescenti, i nostri visi con un velo di sudore e di stupore, il verde acceso del ponte, ci muoviamo tutti velocemente senza avere tempo di coordinarci, dove sono le forbici, l'inglese dell'equipaggio, portale una coperta, il francese dei naufraghi, le lingue madri di ognuno per sfogare quello che solo la tua lingua madre sa veicolare. Ormai usiamo i nostri corpi come contrappeso per far salire i naufraghi, ci aggrappiamo a quelle corde mentre le energie cominciano a scemare.

Alla fine qualcuno prende quei sacchi bianchi che nessuno pensava mai di dover usare e li passa ai ragazzi sul gommone di salvataggio. Sento il capo missione dire che non ci sono più pazienti da imbarcare. Penso ai ragazzi che devono andare su quella barca, Perrine, Max e Chris in un gommone e Yanira, Belinda, Poppy nell'altro. Ragazzi di non più di trent' anni che non si conoscevano fino a due settimane fa e che ora chiuderanno la cerniera sul corpo ormai rigido di due persone adagiate sulle tavole di legno di una barca alla deriva. Penso a quanto le loro vite saranno segnate da questo.

E alla fine è la loro volta. Arrivano sulle barelle rigide, il sacco bianco stretto da due cinture. Vengono portati nel retro del ponte, lontano dagli occhi. Il container delle donne e dei bambini è vicinissimo al punto di imbarco; mentre le barelle salgono c'è un bambino che è rimasto sveglio tutto il tempo, sdraiato sulla pancia, non piange, illuminato dalla luce viola antipanico, guarda. Una atroce ironia del destino vuole che l'abbreviativo del suo nome sia “Solo”. Avrà al massimo sei anni, ha bruciature su tutte le gambe, sul sedere. Solo non si lamenta come tutti gli altri bambini, almeno otto, che condividono il container con lui. Sembra sappia già che non ne vale la pena visto che non ci sarà colei che si dovrebbe occupare di lui. In realtà Solo è probabilmente solo un bambino sotto shock, un bambino che è salito su una barca che doveva portarlo in salvo e dove in vece ha visto morire sua madre ed è rimasto lì, per sei giorni. Mi chiedo quale possa essere l'ultimo pensiero di una madre prima di morire cosi, quanto possa aver lottato per non farlo accadere, e quanto deve essere stata atroce la sofferenza quando ha capito che non ce l'avrebbe fatta.

Penso alle leggi fatte in stanze sterili lontane da qua, ai commenti gradassi sui social sotto le notizie del salvataggio, alle persone che mi dicono “ma cosa ci vai a fare?”, ci penso davanti a questi corpi straziati ma pulsanti, sento quanta vita e quanta disperazione li ha portati qua, quanta esasperazione deve essere passata nelle loro vene e so che capisco che nessuno li può fermare, tutte le leggi e l'odio non avranno mai la loro stessa forza.

Sono tutti a bordo, noi siamo stremati, i gommoni stanno rientrando quando riceviamo un 'altra richiesta di intervento questa volta da Alarm phone. Pensiamo di essere alla fine delle nostre energie e invece dobbiamo trovarne altre. Settantadue persone stimate, un gommone di plastica a quattro ore di navigazione. Qualcuno si fa una doccia, qualcuno mangia. C'è un altra battaglia da combattere in questo terreno di guerra chiamato Mar Mediterraneo.

Le puntate precedenti:

Giorno zero. Pronti a ripartire per salvare vite nel Mediterraneo: il diario a bordo della Sea Eye

Giorno 1 di navigazione. «Il mal di mare e il senso di colpa di sentirsi inutile»

Giorno 4 di navigazione. «Stiamo entrando il zona Sar, dobbiamo tenerci pronti»

Giorno 5 di navigazione. «Allerta massima, il mare è piatto»


Questo diario è scritto a titolo personale e non rappresenta le posizione di Sea Eye


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