Cooperazione & Relazioni internazionali

Essere genitori, dopo la traversata

Nessuno mette i propri figli su una barca, a meno la terra che si lasciano alle spalle sia ancora meno sicura di quell'acqua. Chi arriva dopo un'esperienza di migrazione forzata, come vive poi il proprio essere genitore? Quali sono i bisogni? Come i servizi possono sostenerli, senza misurarli su standard etnocentrici? Una ricerca durata tre anni, su 50 genitori rifugiati e richiedenti asilo, prova a rispondere. Per le famiglie naufragate a Cutro e non solo

di Sara De Carli

«Oggi sentirete le voci di genitori che hanno completato il viaggio con successo: sono arrivati vivi all’altra sponda. Ma queste voci parlano anche di quei genitori e di quei bambini che a Steccato di Cutro, pochi giorni fa, non ce l’hanno fatta».

Francesca Falcone e Antonio Samà hanno introdotto così la presentazione del loro lavoro. Insegnano entrambi all’Università della Calabria e negli ultimi tre anni hanno curato un’ampia ricerca su cosa significhi essere genitori in migrazione forzata, intervistando 50 genitori rifugiati e richiedenti asilo e 22 assistenti sociali che lavorano con loro nel servizio sociale professionale e nei servizi di seconda accoglienza. La ricerca ha messo a fuoco le dinamiche, le fatiche e le sfide dell’essere genitore in una tale situazione di incertezza e vulnerabilità, in un percorso che affronta dolorose transizioni alla ricerca di una maggiore sicurezza per i propri figli. I traumi della pre-migrazione e della migrazione, così come le difficoltà della post-migrazione, impattano fortemente sull’identità e sul ruolo genitoriale e sociale. Quali bisogni esprimono questi genitori? Cosa chiedono ai servizi? I risultati di questa ricerca – che è parte di un progetto più ampio che ha indagato anche la genitorialità in situazioni di difficoltà economica, la genitorialità LGBT+ e quella in situazioni di alta conflittualità – sono stati presentati martedì 28 febbraio a Roma nell’evento “Riconoscere la genitorialità su terreni incerti” (sulla pagina Instagram di VITA trovate la diretta con la professoressa SIlvia Fargion, principal investigator della ricerca CoPInG).

C’erano tante famiglie su quella barca che è naufragata a Steccato di Cutro, famiglie che oggi sono spezzate. Di cosa avranno bisogno, secondo quanto emerso dalla vostra ricerca, i genitori che sono sopravvissuti? Come i nostri servizi potranno supportarli nel modo più giusto nel loro continuare ad essere genitori?

Antonio Samà: La sua domanda interroga due dimensioni: una riguarda il drammatico evento e l’altra i risultati della nostra ricerca. Rispetto all’evento ci troviamo di fronte a una tragedia individuale e collettiva che richiede risposte per eventi traumatici e i cui principali bisogni sono quelli primari, di sicurezza e di accoglienza. In questo le istituzioni locali, la rete dei servizi pubblici e del Terzo settore nonché le comunità locali stanno sinergicamente, anche con dolore e apprensione, rispondendo con senso di responsabilità, professionalità, vicinanza e solidarietà. Rispetto ai risultati della nostra ricerca, che non ha interessato i genitori appena arrivati ma quelli già inseriti nel sistema di seconda accoglienza e con permesso di soggiorno, possiamo dire che la “transizione nella transizione” – cioè dopo il viaggio traumatico (prima transizione) e la ricostruzione del ruolo genitoriale (seconda transizione) – richiede ai servizi l’ascolto e il riconoscimento delle loro pratiche genitoriali senza imporre, anche inconsapevolmente, le aspettative che derivano dai modelli genitoriali etnocentrici. Questo consentirebbe ai professionisti e ai servizi di sostenere i genitori nell’affrontare e risolvere positivamente il cambiamento di contesto in cui le competenze genitoriali si possono esprimere al meglio. Pur nella temporaneità dell’intervento della seconda accoglienza, servizi e professionisti possono accompagnare i genitori nell’apprendimento delle modalità di accesso ai diritti oltre la presa in carico.

I genitori rifugiati o richiedenti asilo, che hanno affrontato il viaggio traumatico e hanno dovuto ricostruire il proprio ruolo genitoriale, richiedono ai servizi l’ascolto e il riconoscimento delle loro pratiche genitoriali senza imporre, anche inconsapevolmente, le aspettative che derivano dai modelli genitoriali etnocentrici.

Che genitori sono o sentono di essere le persone che avete intervistato? Quanto impatta e in che modo sul loro essere genitori l’esperienza traumatica che hanno spesso affrontato?

Francesca Falcone: Dalla voce dei genitori emerge il bisogno di essere riconosciuti nelle fatiche e nelle sfide di essere genitori in un contesto nuovo. Il racconto della loro esperienza mette in luce tre questioni. La prima è che i modelli e le pratiche genitoriali del paese ospitante espongono i genitori rifugiati al rischio di incompetenza, e questo vale in un doppio senso. Vale sia quando i genitori sono “valutati” alla luce di standard etnocentrici che ne evidenziano, ovviamente, l’inadeguatezza, sia quando a loro si dice “continua a fare la mamma o il papà così come facevi a casa tua” ma dentro un contesto legislativo di protezione del minore molto stringente per cui il genitore potrebbe risultare un “cattivo genitore”. La seconda questione mette in luce il fatto che essere genitore in un paese straniero è fonte di insicurezza e richiede, per questo, l’assunzione di una maggiore responsabilità per stare nel ruolo di genitore. Spesso questi genitori si sentono deskilled perché, oltre al disorientamento psico-emotivo della prima transizione, sperimentano anche una profonda solitudine nel loro ruolo genitoriale data dall’assenza del sostegno della famiglia allargata dalla quale, nel paese di origine, sarebbero stati accompagnati e rassicurati nella condivisione della responsabilità genitoriale. L’ultima questione riguarda quindi il lavorìo che il genitore deve fare in relazione alla ricostruzione della propria genitorialità in un contesto nuovo; un lavorìo che deve tener conto sia dell’identità culturale che delle opportunità di integrazione – che per loro è la seconda transizione.

Il racconto della loro esperienza mette in luce tre questioni. La prima è che i modelli e le pratiche genitoriali del paese ospitante espongono i genitori rifugiati al rischio di incompetenza, sia quando i genitori sono “valutati” alla luce di standard etnocentrici che ne evidenziano l’inadeguatezza, sia quando gli si dice “continua a fare la mamma o il papà così come facevi a casa tua”, ma dentro un contesto legislativo di protezione del minore molto stringente per cui il genitore potrebbe risultare un “cattivo genitore”.

Ma c’è anche un aspetto che vorremmo sottolineare che fa parte dell’esperienza di questi genitori, ed è questo contemporaneo desiderio di continuità identitaria e di integrazione. La continuità identitaria emerge come bisogno psicologico del genitore in quanto persona e in quanto genitore. La radice culturale e religiosa dell’identità, infatti, ci sembra essere una risorsa che dal punto di vista personale protegge dai vari squilibri psicologici, dall’anomia e dalla perdita di radicamento esistenziale, e dal punto di vista genitoriale protegge dai rischi di una società ignota e complessa. Allo stesso tempo c’è un desiderio di integrazione che non si “piega” però alle aspettative di normalità del contesto: in questo senso ci è sembra che il genitore rifugiato sia una sorta di “giano bifronte”, con un viso volto a proteggere la tradizione e con l’altro a perseguire con cautela l’integrazione.

Rispetto all’essere genitori, perché la migrazione forzata è diversa dalla migrazione tout court?

Antonio Samà: Intanto c’è da dire che nonostante i termini “rifugiato” e “migrante” siano usati in modo intercambiabile, tra i due c’è una differenza fondamentale dal punto di vista dei presupposti della migrazione e, di conseguenza, legale. Con il termine rifugiato ci si riferisce a una precisa definizione legale e a specifiche misure di protezione stabilite dal diritto internazionale. Per l’International Organisation Migration la migrazione forzata è un movimento migratorio caratterizzato da elementi di coercizione derivati da calamità naturali o da cause umane, comprese le minacce alla vita e al sostentamento. Le persone che si trovano in queste condizioni – che comprendono conflitti, oppressioni e abusi di potere, povertà estrema, degrado o disastro ambientale, squilibri demografici, mancanza di sistemi minimi di sicurezza, di sanità e di servizi nei momenti di crisi e assoluta mancanza di partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche – vivono una situazione così rischiosa e intollerabile che attraversano i confini nazionali in cerca di sicurezza nei paesi limitrofi, e diventano quindi internazionalmente riconosciuti come “rifugiati” ossia come persone che necessitano di assistenza da parte degli Stati, dell’Unhcr e delle organizzazioni competenti. A differenza della migrazione ‘volontaria’ collegata alla domanda di lavoro e, quindi, anche a una possibile “libera scelta”, in quella forzata questa libera scelta non è mai l’elemento principale che spinge una persona a trasferirsi in un altro Paese. Le condizioni che abbiamo appena descritto obbligano ad una scelta semmai e, appunto, danno il diritto a specifiche misure di protezione. La protezione internazionale assegna quindi ai genitori in migrazione forzata uno status specifico che li mette in immediata e diretta relazione con i servizi. Fa parte integrale del loro percorso di accoglienza e integrazione il rapporto e il lavoro con operatori e servizi. Questo non vale per la migrazione tout court.

A differenza della migrazione ‘volontaria’ collegata alla domanda di lavoro e, quindi, anche a una possibile “libera scelta”, in quella forzata questa libera scelta non è mai l’elemento principale che spinge una persona a trasferirsi in un altro Paese.

C’è una storia, nelle 50 interviste, che vi ha colpito in particolare?

Francesca Falcone: Tutte le storie di vita dei genitori che abbiamo raccolto ci hanno colpito. Sono storie che ci mettono di fronte a realtà rispetto alle quali ci sentiamo spiazzati, realtà che spesso ignoriamo e che conosciamo solo superficialmente. Quello che colpisce è, seppure nella diversità delle esperienze, un comune denominatore, che è il sogno della sicurezza e il desiderio del futuro. Il bisogno di sentirsi in un posto sicuro e di poter accarezzare un’idea di futuro spinge questi genitori a decidere di migrare e ad assumersi il rischio di non arrivare. Ma anche arrivando, spesso, questi genitori non trovano la sicurezza che cercano, e questo ci dice come, nonostante l’approdo, sembra esserci una insicurezza (identitaria, di ruolo e di integrazione) che li accompagna e che è racchiusa nei processi e nelle dinamiche della post-migrazione. Diverse sono le madri che ci hanno raccontato il dolore della decisione di migrare e del senso di sradicamento che hanno vissuto nel momento in cui sono salite sul barcone. Un senso di perdita e un lutto simbolico perché queste madri ce l’hanno fatta. Ci sono racconti di madri i cui costi fisici, e non solo psico-emotivi, della migrazione sono rimasti sulla nostra pelle a lungo: una madre che ha subito ripetutamente violenza sessuale dagli scafisti, che ha accettato a patto di compiere la traversata e il cui unico pensiero fu quello di affidare la sua bambina di 4 anni ad un’altra donna per proteggerla dalla scena della violenza. E poi ci sono storie di madri e di padri che ci parlano della paura del nuovo mondo, di come la migrazione non sia solo uno spostamento da una parte all’altra del mondo, ma cambi profondamente il modo di essere madre o padre, e prima ancora il modo di essere “persona”. Una madre ha condiviso con noi il suo profondo senso di inadeguatezza, le sue incertezze. Ricordiamo quando ci disse: “Sto facendo tutto quello che posso per essere una buona madre, ma a volte mi sembra che non è mai abbastanza ciò che faccio”. Questo esprime bene la fatica esistenziale che queste persone portano con sé e che impatta sia sull’identità che sul ruolo genitoriale.

Seppure nella diversità delle esperienze, c'è un comune denominatore, che è il sogno della sicurezza e il desiderio del futuro. Il bisogno di sentirsi in un posto sicuro e di poter accarezzare un’idea di futuro spinge questi genitori a decidere di migrare e ad assumersi il rischio di non arrivare. Ma anche arrivando, spesso, questi genitori non trovano la sicurezza che cercano, e questo ci dice come, nonostante l’approdo, sembra esserci una insicurezza (identitaria, di ruolo e di integrazione) che li accompagna e che è racchiusa nei processi e nelle dinamiche della post-migrazione.

“Faccio tutto quello che posso e sembra non bastare mai”. È una questione di modelli culturali diversi, per cui a noi (società e servizi), secondo il nostro modello genitoriale, il loro modello genitoriale sembra inadeguato? O altro?

Antonio Samà: Assolutamente sì. La nostra ricerca ha messo in evidenza – ma questo è sostenuto anche in letteratura – che quando questi genitori entrano in contatto con i servizi e i professionisti, implicitamente entrano in una relazione “valutativa” in cui i modelli culturali e antropologici con cui si definisce la “buona genitorialità”, in forme più o meno implicite, possono interferire con l’ascolto attivo e con il reciproco riconoscimento che nel lavoro con questi genitori è fondamentale. La mancata comprensione della questione della diversità nelle circostanze di vita di questi genitori e della natura della loro genitorialità può limitare il modo con cui i professionisti vedono questi genitori, considerati meno capaci rispetto ai genitori bianchi di classe media.

La mancata comprensione della questione della diversità nelle circostanze di vita di questi genitori e della natura della loro genitorialità può limitare il modo con cui i professionisti vedono questi genitori, considerati meno capaci rispetto ai genitori bianchi di classe media.

I modelli genitoriali occidentali che informano le pratiche degli assistenti sociali, come hanno anche evidenziato alcuni studi, spesso contribuiscono a esiti non positivi nel lavoro con i genitori rifugiati e questo porta a chiedersi se i professionisti abbiano tutte le conoscenze e le abilità necessarie per lavorare con questi genitori. Il modello occidentale prevalente è quello dell’intensive parenting, figlio dell’ideologia neoliberista. Questo modello incoraggia pratiche genitoriali che esercitano un elevato controllo sul bambino, che richiedono expertise da parte dei genitori e che comportato un elevato investimento di tempo ed energia. Nel contesto europeo questa “genitorialità intensiva” detta i criteri per un “good parenting” e questo sembra influenzare molto il lavoro con questi genitori.

Foto Avalon/Sintesi


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