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La difesa del clima? Diventi un obbligo di legge

Come obbligare gli Stati a affrontare per davvero la questione ambientale? Adesso la strada la indicano le Nazioni unite. L'Onu ha appena adottato una risoluzione che richiede alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su quali obblighi abbiano gli Stati per quanto riguarda la protezione dell'ambiente e delle popolazioni. Un punto di svolta fondamentale. Ecco perché

di Andrea Di Turi

Sta diventando sempre più chiaro che la lotta alla crisi climatica, se vuole provare ad essere efficace, dev'essere giocata prima di tutto come una partita legale. Deve interessare il diritto, entrare nelle stanze dei governi e dei parlamenti, nelle aule dei tribunali, produrre un cambiamento nelle leggi e nel modo in cui sono applicate.

È ormai palese che un approccio sbilanciato sull'auto-regolamentazione, su impegni volontari e di conseguenza non vincolanti, com'è stato in sostanza fin qui, più di tanto non può incidere. Sono lì a testimoniarlo tristemente i grafici – diffusissimi su internet e social media – che mostrano da una parte l'aumento negli ultimi trent'anni della CO2 in atmosfera, che a metà aprile ha raggiunto un nuovo raggelante record; dall'altra, i grandi accordi internazionali sul clima raggiunti nello stesso arco di tempo, i risultati delle COP (le Conferenze delle Parti sui cambiamenti climatici dell'Onu, la prima a Berlino nel 1995, l'ultima a Sharm el-Sheikh a novembre 2022), che a quella curva non sono stati capaci di fare neppure il solletico. Grafici spesso identificati con l'hashtag #climateinactionstripes, "le strisce dell'inazione climatica". Un'accusa, quella di inazione climatica, che pende tra l'altro anche sul capo dello Stato italiano, nella causa che gli è stata intentata da oltre 200 fra cittadini (fra i quali il climatologo e noto volto televisivo Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana) e organizzazioni, di cui si è tenuta la seconda udienza nel giugno scorso.

Con l'emergenza climatica che avanza, dunque, è evidente che bisogna che siano chiamati per legge a fare di più tutta una serie di attori. Senz'altro le grandi corporation e le istituzioni finanziarie, che possono e devono fare la loro parte per accelerare la fine della dipendenza del nostro modello di sviluppo dai combustibili fossili, il cui utilizzo notoriamente rappresenta di gran lunga la prima causa del riscaldamento globale. Ma soprattutto devono essere obbligati a fare di più gli Stati, che considerati tutti insieme sono i massimi rappresentanti istituzionali di noi tutti, dell'umanità. Ai quali noi tutti deleghiamo le decisioni più importanti chiedendo, e sperando, che siano prese nell'interesse generale, per il bene comune. Cosa che però purtroppo non sta accadendo di fronte – com'è stato detto infinite volte ma non è superfluo ribadire – alla più grande sfida di sempre per l'umanità: quella, appunto, dell'emergenza climatica. Che sta rendendo il pianeta sempre più inabitabile.

Se si parla di comunità internazionale nella sua interezza, si parla ovviamente di Nazioni Unite. È proprio quanto successo alle Nazioni Unite, a fine marzo, che dà per fortuna un po' più di fiducia sul fatto che gli Stati prima o poi verranno obbligati ad essere meno "inattivi" sulle misure da prendere per contrastare la crisi climatica. E che dimostra una volta di più, in modo in questo caso eclatante, come la sfera legale sia al centro della questione climatica.

Il 29 marzo l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che sulla base del diritto internazionale, di convenzioni, dichiarazioni e trattati (fra cui ad esempio l'Accordo di Parigi o la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), richiede alla Corte Internazionale di Giustizia, principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, un parere consultivo su quali obblighi abbiano gli Stati per quanto riguarda la protezione dell'ambiente e delle popolazioni – future generazioni comprese – dall'impatto della crisi climatica. E su quali siano le conseguenze legali derivanti da tali obblighi.

Il parere che si chiede alla Corte Internazionale di Giustizia di esprimere non sarà vincolante. Ma, data la rilevanza dell'istituzione in gioco, a detta degli esperti potrebbe costituire un punto di svolta fondamentale nell'accelerare l'azione degli Stati sul clima. Perché definirebbe un obbligo alla luce del diritto internazionale. E avrebbe per tale motivo un'enorme influenza sui contenziosi che da tempo stanno prendendo di mira proprio gli Stati, per la loro azione non sufficiente sul clima, e in particolare sui giudici che su quei contenziosi sono chiamati a decidere. Per questo si è parlato, in riferimento alla risoluzione, di voto storico. Sebbene parlare di votazione non sia propriamente corretto, perché la mozione è passata all'unanimità. Il che la dice lunga su quanto l'urgenza di affrontare la crisi climatica sia diffusamente avvertita nel mondo.

L'evento del 29 marzo è stato pazientemente costruito attraverso un lungo lavoro di sensibilizzazione e di costruzione di alleanze dai primi promotori della risoluzione: una coalizione di 18 Stati, fra cui Vanuatu, piccola nazione insulare del Sud Pacifico che ha avuto un ruolo guida, tant'è che il sito dedicato all'iniziativa porta il suo nome: "Vanuatu ICJ Initiative". E la leadership di Vanuatu non è certo un caso, dato che i suoi abitanti sono già duramente impattati e non da oggi dalla crisi climatica. In vista del voto alla coalizione si sono poi aggiunti in qualità di co-sponsor della risoluzione altri 132 Stati (fra cui l'Italia).

Cosa succederà ora? L'iter per arrivare al parere della Corte Internazionale di Giustizia è solo all'inizio e richiederà tempo. A prescindere dall'esito, comunque, quest'iniziativa ha chiarito definitivamente una cosa: la partita della crisi climatica non si potrà vincere se non sarà giocata con le armi del diritto. Delle leggi. E degli obblighi che dalle leggi derivano. In primo luogo per gli Stati.


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