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Economia & Impresa sociale 

Risoluzione Onu sull’economia sociale: è la prima volta nella storia

In economia ormai si è rotto il consenso attorno al cosiddetto pensiero mainstream. Al Palazzo di vetro l’impegno a favore dell’economia sociale è arrivato dopo che altre istituzioni di peso si sono attivate in questi ultimi anni. Un segnale importante

di Gianluca Salvatori

Siamo così a quattro in meno di due anni. Ha cominciato la Commissione europea. Poi sono venute l’International Labour Organisation e l’Ocse. E il 18 aprile di quest’anno, finalmente, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Mai si era visto un simile allineamento su un tema tutt’altro che scontato. Specie in istituzioni internazionali abituate a muoversi al ritmo di cicli lunghi, dove l’adozione di nuove prospettive è il risultato di processi estenuanti misurabili su avanzamenti millimetrici. Contrassegnati da una lunga storia di complessi negoziati multilaterali, costantemente a rischio di fallimento.

Questa volta invece è stato diverso. L’approvazione della prima risoluzione nella storia dell’Onu dedicata all’economia sociale e solidale è stata, per i tempi della veneranda istituzione, quasi fulminea. E anche le iniziative delle organizzazioni che l’hanno preceduta non sono state da meno. Come se il riconoscimento dell’importanza di questa visione economica non potesse più attendere. Ed è così, in effetti. Dal punto di vista di chi osserva il mondo dal versante delle grandi tendenze globali era impossibile non prendere atto che i modelli di sviluppo che ci hanno guidato nell’ultimo quarto di secolo non hanno più una presa salda sulla realtà. In economia si è rotto il consenso attorno al cosiddetto pensiero mainstream. La permacrisi — o policrisi, comunque la si voglia definire — ha messo a nudo i meccanismi della competizione di mercato, mostrando come questa non si possa più considerare la stella polare verso cui orientare l’azione economica delle persone e delle imprese.

Si potrebbe obiettare che non va troppo enfatizzata la risoluzione di un’organizzazione affaticata e spesso impotente come le Nazioni unite. In realtà, la questione va vista alla luce di un paio di considerazioni. Innanzitutto, come si è detto, al Palazzo di vetro l’impegno a favore dell’economia sociale è arrivato dopo che altre istituzioni di peso si sono attivate in questi ultimi anni. Non si tratta quindi di un’iniziativa episodica ma è, piuttosto, l’espressione di un movimento profondo. Le cui radici vanno ricercate nella necessità di nuovi approcci verso cui indirizzarsi. Per correggere gli squilibri e gli eccessi di un pensiero economico unilateralmente finalizzato a massimizzare il profitto. Per non perdere del tutto il contatto con la realtà, il mondo delle istituzioni internazionali ha sentito il dovere di confrontarsi con gli effetti di politiche – che esso stesso ha contribuito ampiamente a diffondere – i cui effetti sono stati una crescita esponenziale delle disuguaglianze e di forme sempre più destabilizzanti di disagio sociale.

La seconda questione riguarda invece la straordinaria influenza dell’Agenda 2030. Delegittimata nella sua tradizionale funzione di mantenimento della pace mondiale, le Nazioni unite hanno saputo riconquistarsi un ruolo globale tracciando la strada verso uno sviluppo sostenibile del pianeta. Forte della loro posizione, che le colloca al di sopra degli interessi particolari delle nazioni, sono riuscite a costruire una strategia verso la quale hanno catalizzato l’attenzione di governi, imprese, organizzazioni della società civile e movimenti sociali. Non era mai successo che l’urgenza del messaggio si imponesse in maniera tanto autorevole e capillare.

L’Onu è emersa con una visione di lungo periodo dello sviluppo decisamente fuori dalla portata delle singole nazioni. La prospettiva entro cui ha preso a muoversi è necessariamente globale, come deve essere di fronte alla dimensione dei temi da affrontare. La tempistica non è quella delle tornate elettorali. La preoccupazione da cui è mossa assume come riferimento il futuro dell’umanità tutta intera. Si capisce allora perché, con il progressivo precisarsi di una visione di sviluppo sostenibile, non poteva non acquistare rilevanza il tema dei soggetti più indicati per la sua attuazione.

La risoluzione a sostegno dell’economia sociale va letta in questo quadro. Non per nulla è il risultato dell’azione di un gruppo di Paesi – tra cui soprattutto Spagna e Francia – per i quali il sostegno all’economia sociale è una costante sistemica e non settoriale delle politiche pubbliche. Gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile non nascono infatti come una mera lista di singoli ambiti su cui intervenire per favorire la transizione ecologica. È molto di più: contiene una visione integrale delle componenti necessarie ad un programma di riorientamento dello sviluppo delle nazioni e della comunità internazionale. Per questo era inevitabile che l’Agenda 2030 incontrasse il tema delle forme organizzative chiamate ad interpretarne e tradurne al meglio lo spirito.

L’economia sociale non è un attore tra gli altri. Ha un compito determinante e unico: perché è spinta da un interesse generale che la distingue dai tradizionali soggetti di mercato e perché si fonda su un principio di collaborazione anziché su quello di autorità che è proprio dello Stato. La risoluzione delle Nazioni unite è importante perché permette di collegare la strategia per lo sviluppo sostenibile non solo alle motivazioni di chi agisce, che possono sempre essere diluite o rinnegate, ma alla struttura giuridica e organizzativa entro cui si agisce, che rappresenta un vincolo durevole. Ricordandoci che esistono forme organizzative e imprese in cui la responsabilità nei confronti delle persone e dell’ambiente non è opzionale, ma costituisce una ragione d’essere che non si può modificare (e nemmeno tradire).


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