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Non tutti i Nimby vengon per nuocere

L'acronimo significa "not in my back yard", che possiamo tradurre con "non nel mio giardino" ed è così che vengono etichettate le proteste dei comitati territoriali. Ce ne sono centinaia, in Italia. Nascono, si spengono in opposizione a opere, grandi o piccole, ritenute dannose. «I "no" riescono ad aggregare persone molto diverse, che però non saprebbero elaborare una visione condivisa del mondo», dice il sociologo ambientale Giovanni Carrosio

di Elisa Cozzarini

Gli ambientalisti dicono sempre no? No Ponte sullo Stretto, No Tav Torino Lione, No autostrada Treviglio Bergamo, No eolico nel Mugello, No termovalorizzatore di Roma, No ovovia a Trieste, No al nuovo aeroporto di Firenze… È lunga e mutevole la lista delle battaglie, grandi e piccole, che i comitati spontanei di cittadini portano avanti sui territori, con motivazioni e obiettivi disparati, a volte, ma non sempre, appoggiate dagli ambientalisti.

Tutte queste battaglie vengono etichettate come "Nimby", acronimo inglese che sta per Not in my backyard (Non nel mio giardino). La definizione, usata per delegittimare la mobilitazione, lascia intendere che qualunque tipo di opposizione locale sia spinta da un particolarismo egoista, da ignoranza o da una percezione distorta del rischio. Ma è davvero così?

Più di 10 anni fa, il politologo Luigi Bobbio faceva un'analisi lucida, e ancora valida, di queste mobilitazioni: «Nelle società contemporanee i conflitti territoriali sono ormai diventati più frequenti e diffusi dei conflitti sociali. Spesso sono anche più dirompenti. Il loro tratto caratteristico è costituito da comunità che difendono il loro territorio da aggressioni esterne. Tali aggressioni possono essere costituite da manufatti particolarmente invasivi (inceneritori, autostrade, linee ferroviarie, centrali elettriche, impianti eolici, ecc.) o da insediamenti umani sgraditi (campi nomadi, insediamenti di immigrati, moschee, ecc.)». Ciò che accomuna i conflitti territoriali, scriveva poi Bobbio, «è il fatto di essere promosse e gestite da comitati di cittadini costituiti ad hoc, che si autorappresentano come apartitici e come rappresentanti autentici della loro comunità. Spesso gli oppositori ricevono l’appoggio di associazioni ambientaliste o di gruppi politici, ma cercano comunque di rivendicare e mantenere la loro autonomia in quanto espressione del territorio e di chi ci vive. Gli enti locali, specie quelli di piccola taglia, tendono a sostenere le loro proteste».

La mappa dei conflitti locali

Tra il 2004 e il 2017, ogni anno l'Osservatorio Nimby Forum ha realizzato una mappatura (l'immagine sotto, ndr) dei conflitti territoriali di tipo ambientale in Italia, contandone 317 nell'ultimo rapporto. Di questi, il 57% era legato al settore energetico, per lo più riferito alla costruzione di nuovi impianti da fonti rinnovabili, il 36% al trattamento dei rifiuti, il 6% circa a infrastrutture e l'1% ad altre opere di tipo industriale. Oggi servirebbe un aggiornamento, perché il quadro cambia velocemente, si muove seguendo gli annunci politici di opere pubbliche, l'avvio o la ripresa di progetti industriali, la variazione del sistema degli incentivi, in particolare per la produzione di energia rinnovabile.

Negli ultimi anni, dalla spinta per la transizione energetica, sono nati un po' ovunque nuovi progetti, dal piccolo idroelettrico all'agrivoltaico, ai parchi eolici, che spesso incontrano l'opposizione dei territori. «Questi conflitti mettono in evidenza una tensione tra globale e locale», commenta Giovanni Carrosio, sociologo dell'Ambiente all'Università di Trieste. «Ci sono due modi di vedere la sostenibilità: se si ragiona in un'ottica globale, con l'obiettivo di tagliare le emissioni di gas serra, i nuovi impianti sono considerati sempre in modo positivo. Ma un intervento a favore del clima può risultare insostenibile a livello locale, perché per esempio distrugge la biodiversità, deturpa il paesaggio, etc».

È una delle sfaccettature del fenomeno Nimby. I comitati territoriali sono sempre composti da tanti tipi di persone, con obiettivi e livelli di conoscenza diversi, e sono caratterizzati da una forte trasversalità politica. C'è in effetti chi dice no solo perché l'opera sarebbe vicino a casa sua, altri ritengono che i territori paghino un prezzo troppo alto, per benefici che vanno altrove. Alcuni considerano soprattutto i rischi, non fidandosi delle rassicurazioni di chi propone l'opera, visti anche alcuni fallimenti del passato. Ci sono persone che individuano in una determinata causa l'occasione per costruire consenso e provare a fare carriera politica, o chi la intraprende come conseguenza naturale della militanza in un comitato. C'è chi si oppone per motivi ideologici.

Contro expertise

«Di certo all'interno dei comitati non mancano gli esperti. Basti pensare al primo nucleo No Tav, nato da ingegneri del Politecnico di Torino», prosegue Carrosio. «Non c'è ignoranza o mancanza di comprensione. Parliamo invece di contro-expertise: usando le metodologie del sapere esperto, contestano un altro sapere esperto, quello di coloro che hanno proposto e sostengono il progetto. Spesso entrambe le parti portano argomenti scientificamente robusti. Ma tendono comunque a utilizzare argomenti populistici per allargare il consenso».

Anche molti non esperti, mobilitandosi, capiscono che devono formarsi e studiare: partono dalla contrarietà a un'opera, dal desiderio di difendere il proprio luogo di vita, e nel percorso si rendono conto che devono trovare buoni argomenti a sostegno delle loro ragioni. Alcuni allargano lo sguardo e arrivano a mettere in discussione lo stesso modello di sviluppo. Escono, quindi, "dal loro giardino", per immaginare un mondo diverso.

«I comitati territoriali sono realtà difficili da rappresentare politicamente. Ci ha provato il Movimento Cinque Stelle, che però nell'azione di governo ha deluso tante aspettative. E le associazioni ambientaliste, che hanno un'idea precisa di mondo, nei comitati riescono a convincere solo le persone con un'organicità di pensiero compatibile. Per questo fanno fatica a stare in queste mobilitazioni, anche se le condividono in parte», conclude Carrosio. «Le istituzioni, i partiti, i sindacati, le associazioni, negli ultimi trent'anni hanno perso la loro capacità di intermediazione. C'è una cittadinanza molto frammentata, che riesce ad aggregarsi per le più svariate ragioni contro qualcosa che reputa negativo, ma non è capace di mettersi insieme, a favore di un progetto».

La foto in apertura è di Fabio Fiorani per Agenzia Sintesi.


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