Cooperazione & Relazioni internazionali

Referendum in Sud Sudan, sarà la storia a giudicare

di Giulio Albanese

Sì, è il coronamento di un sogno per il popolo sud sudanese. Si è svolta infatti oggi la prima giornata della consultazione referendaria che sancirà l’autodeterminazione delle regioni meridionali del più grande Paese africano. Fin dall’alba, se non dalla notte,  lunghe code di persone si erano già allineate in ordine davanti ai seggi. E alla chiusura delle  urne, alle 17:00 locali (le 15:00 in Italia), un gran numero di cittadini se n’è tornato a casa deluso per non aver votato e ripromettendosi di tornare domani. Potranno farlo fino al 15 gennaio,  con l’intento dichiarato di far valere i loro diritti. È dall’agosto del 1955, prima ancora che fosse proclamata l’indi­pendenza dalla corona britannica, che iniziò la ribellione contro l’oligarchia islamica che stava prendendo il potere. Parte della responsabilità, secondo alcuni studiosi, ricadrebbe sugli in­glesi che già nel lontano 1947, durante la Con­ferenza di Juba, esercitarono forti pressioni perché il Sud Sudan, a matrice animista e cri­stiana, si unisse politicamente al Nord mu­sulmano. Sta di fatto che questo Paese, il più vasto dell’Africa, è quello in cui si è combat­tuto il più lungo conflitto post-coloniale del continente. Se infatti si sommano le due gran­di guerre civili – la prima ribellione, denomi­nata ‘Anya Nya I’ (1955-1972), e la seconda, ‘Anya Nya II’ (1983-2005) – risultano quasi quarant’anni di ostilità, con un bilancio cata­strofico. Solo nel secondo conflitto persero la vita almeno 2 milioni e mezzo di persone. Nel frattempo, come se non bastasse, nel 2003 si è aperto un nuovo fronte, nella regione del Darfur, dove si continua a combattere. Ma tor­nando alla consultazione referendaria, è scon­tato che sarà un trionfo plebiscitario dei se­cessionisti, i quali sono pronti a riprendere le armi se Khartoum dovesse opporsi. Ma per comprendere la portata di questo storico e­vento, occorre tenere presente le ragioni del dissidio. Se da una parte è vero che la decisio­ne del regime nordista di estendere al Sud la sharìa, la legge islamica, determinò nell’83 lo scoppio delle ostilità, dall’altra risultano de­terminanti anche altri fattori. Anzitutto eco­nomici, legati allo sfruttamento del bacino petrolifero presente nei territori meridionali, e di rincalzo anche cause politiche ed etniche. È bene ricordare che gli ex ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla) si qua­lificarono, all’inizio della lotta armata, duran­te la Guerra Fredda, come movimento d’ispi­razione marxista-leninista, con l’appoggio in­condizionato dell’allora dittatore etiopico Menghistu Haile Mariam. Fu solo dopo il crol­lo del Muro di Berlino che il colonnello John Garang, il leader dello Spla deceduto in circo­stanze misteriose pochi mesi dopo l’accordo di Nairobi, diede al suo movimento armato u­na nuova immagine, con l’intento di offrire al­la lotta armata una connotazione religiosa in difesa dei cristiani del Sud. Una presenza, quella cristiana, comunque minoritaria in un territorio fortemente animista (80-85%). Una cosa è certa: tra Nord e Sud sono ancora molti i nodi da sciogliere, a partire dall’inca­pacità di raggiungere un’intesa soddisfacente sui confini, a cui bisogna aggiungere le altre controversie irrisolte riguardanti il petrolio, le risorse idriche e i debiti. Questo referendum è visto con preoccupazione dall’Unione Afri­cana. Il timore è che l’indipendenza del Sud Sudan possa innescare una reazione a catena coinvolgendo anche altri Paesi, ad esempio la Nigeria, con una morfologia ‘etnico-geogra­fica’ simile a quella sudanese. Premesso che i contesti sono diversi e che esiste già un pre­cedente – la secessione dell’Eritrea dall’Etio­pia all’inizio degli anni ’90 – la questione del­l’intangibilità dei confini africani sarà sempre controversa in un continente che ha eredita­to il modello statuario delle ex potenze colo­niali fissato al Congresso di Berlino. A questo punto è chiaro che Khartoum non può continuare a fare orecchie da mercante, considerando che gli Stati Uniti giudicano la pacifica soluzione del referendum come prio­ritaria nella loro agenda africana. Giù il cap­pello, comunque alla società civile sudanese, Chiesa cattolica in testa, per l’impegno profuso in questi anni a favore della pa­ce. La vera incognita, guardan­do al futuro, è rappresentata dagli stessi sudsudanesi che devo­no imparare a convivere tra loro e ad autogovernarsi. Mentre scriviamo, non si hanno dati sull’affluenza alle urne, se non marginali, ma è certo che il numero dei sudanesi andati a timbrare la propria scheda con l’inchiostro sul pollice accanto al disegno della mano aperta che indica il voto per l’indipendenza del Sud dal Nord è stato di gran lungo superiore ai timbri apposti accanto alle due mani che si stringono per indicare il mantenimento dell’unità nazionale. Sarà la storia a giudicare.


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