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Cooperazione & Relazioni internazionali

Dal mare alla terraferma: i diritti non sono una concessione

di Marco De Ponte

Finalmente le quarantasette persone a lungo trattenute a bordo dell'imbarcazione della Seawatch sono state condotte sulla terraferma. Prima di parlare di un lieto fine, però, è necessario valutare quali saranno le procedure a cui verranno sottoposte queste persone. Non possiamo correre il rischio che i riflettori si abbassino, bisogna tenere alta l’attenzione , e monitorare quale tutela legale sarà offerta adesso ai quarantasette cittadini stranieri.

È necessario che accedano a tutte le garanzie previste nell'ordinamento italiano ed europeo. Il pericolo che le autorità considerino questo sbarco una concessione e sottopongano i migranti a procedure diverse da quelle codificate è reale. Più in generale, da quando l'approccio hotspot è stato introdotto in Italia, le procedure di identificazione e di attribuzione di status giuridici sono state contraddittorie e in molti casi hanno configurato prassi al di fuori della normativa vigente. Alla luce di questi elementi, occorre quindi prestare la dovuta attenzione alle procedure a cui saranno sottoposti questi cittadini stranieri, anche dal punto di vista della qualità dei servizi di accoglienza offerti, dell'accesso alla domanda di asilo e della tempistica di definizione degli status giuridici.

Può essere sicuramente utile definire una dimensione europea nella gestione della presa in carico e nella condivisione delle responsabilità tra Stati Membri per garantire il rispetto e l’esercizio effettivo dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati a partire dall’accoglienza e dall’accesso alla procedura d’asilo. Ma questa prospettiva deve essere codificata in procedure eque, regolari e generali, che abbiano al centro la tutela dei cittadini stranieri, al di là degli interventi estemporanei, presentati come concessione. Le ultime vicende mostrano poi quanto sia necessaria, e anche in linea con le aspettative di gran parte dei cittadini stranieri che arrivano sulle nostre coste, una riforma del Regolamento di Dublino, che consenta di superare il vincolo tendenziale al primo paese di approdo. Riforma che purtroppo il governo italiano ha contribuito a minare, evitando di sedersi al tavolo delle trattative con gli altri Stati membri.

È fondamentale che vicende come quella della Sea Watch in questi giorni, o della nave Diciotti mesi fa, non si ripetano più. Le attività di salvataggio in mare condotte dalle ONG non solo non dovrebbero essere ostacolate in alcun modo dalle autorità, ma andrebbero supportate ed estese, per limitare il più possibile l’insostenibile numero di morti nel Mediterraneo. Invece il timore, rafforzato anche dalle anticipazioni dei media, è che le intenzioni del governo vadano in direzione opposta. L’idea di uno stop all’ingresso delle ONG nelle nostre acque territoriali fatica a conciliarsi con la tutela dei diritti, con l’imperativo della salvezza delle vite umane che deve restare un obiettivo prioritario.

L'Italia deve riprendere a fare la sua parte nella gestione degli sbarchi, consentendo un tempestivo approdo a tutte le navi che effettuano salvataggi in mare e garantendo l'accesso alla tutela giuridica a tutti i cittadini stranieri che arrivano nel nostro paese. E anche la società civile deve battersi per riacquistare il suo spazio nel dibattito pubblico, senza paura di difendere e sostenere le proprie posizioni. Occorre reagire, anche di fronte al processo continuo di delegittimazione in atto, e mettere a sistema energie e competenze di organizzazioni e cittadini, come accaduto negli ultimi giorni a Siracusa. Gli attori civici possono fare la differenza solo se sono consapevoli della forza del ruolo che hanno e dei diritti che possono reclamare, per tutti.


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