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Il sociale e le elezioni, nell’epoca del populismo

di Sergio Segio

«Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente», cantavano i Nomadi nel secolo scorso in Dio è morto.

L’intramontabile canzone torna in mente dopo aver guardato le liste delle candidature alle prossime elezioni, dove si profila un esodo senza precedenti dal non profit in direzione degli scranni parlamentari.

Sono almeno una ventina i presidenti o comunque i referenti di associazioni candidati perlopiù nel PD, in SEL e nella Lista Ingroia, l’ennesimo “partito-personale” chissà perché sottotitolato Rivoluzione civile. Difficilmente, infatti, le rivoluzioni sono bene educate, men che meno risultano realizzabili per via elettorale.

Pure, il travaso dalla società civile alla politica non è un cambiamento così radicale e neppure così nuovo.

Non è certo da oggi che i partiti popolari e di sinistra “pescano” candidati nelle grandi organizzazioni del sociale, tradizionalmente viste e volute come serbatoi di voti e come cinghie di trasmissione dalla società ai partiti. Nella Prima Repubblica era pressoché automatico che il collateralismo dei dirigenti di ACLI e ARCI agli allora partiti di massa, vale a dire la DC, il PCI e il PSI, venisse premiato alla prima occasione con l’ingresso in Parlamento. Lo stesso, altrettanto regolarmente, avveniva per i vertici dei sindacati di diverso e triplice orientamento.

Mutatis mutandis, dunque. Con qualche differenza non secondaria. Allora, consuetamente, non erano i presidenti e le figure di primissimo piano delle associazioni a transitare verso il Parlamento, ma semmai dirigenti non altrettanto indispensabili; diverso era per i sindacati, dove invece erano spesso i segretari a divenire parlamentari e non di rado ministri o sottosegretari.

Oggi, peraltro, ciò avviene nel momento più basso di autorevolezza e credibilità della forma-partito e delle istituzioni parlamentari e di massima frattura tra queste e la società. Soprattutto, la politica parlamentare nella fase del populismo di destra e di sinistra e del proliferare dei “partiti-personali” non garantisce nemmeno più gli spazi di partecipazione e di possibilità di contribuire alle decisioni com’era nel Novecento.

Infine, un esodo così massiccio in un’unica tornata elettorale non ha probabilmente molti precedenti. Si calcola che possano essere almeno 20 gli esponenti di associazioni che realisticamente diverranno membri del prossimo Parlamento.

La questione, in effetti, è ambivalente e contraddittoria. Lo dice bene Guido Marcon, ora candidato per SEL alle elezioni politiche e da sempre figura eminente nel sociale, dove è stato sinora promotore e portavoce di Sbilanciamoci!: «I margini sono stretti, le difficoltà molte e, per chi è legato alla “politica dal basso”, nella società civile e nei movimenti, sarebbe sbagliato affrontare questa sfida appiattiti sulla realpolitik da un lato, o chiusi in una logica di autoreferenzialità dall’altro, in una schizofrenia politica tra tatticismo e testimonianza» (“il manifesto”, 23 gennaio 2013).

L’ambizione, va da sé, è quella che ripete anche Paolo Beni, presidente dell’ARCI e ora candidato per il PD: portare i temi del sociale nell’agenda politica, contribuire a una svolta profonda.

È ben vero che di un radicale cambio di rotta vi è bisogno e che figure di comprovata esperienza e sensibilità sociale prestate o sia pur cedute alle Camere (e auspicabilmente a funzioni e ruoli di governo) non possono che costituire una solida garanzia che quelle sensibilità si traducano in cambiamenti effettivi, in diversa definizione di priorità, in più equa ed efficace collocazione delle risorse, in difesa e rilancio dei beni comuni. Ma ciò implica la considerazione di fondo – contro ogni probabilità ed esperienza – che il cambiamento abbia la sua sede e possibilità solo o soprattutto nelle sedi parlamentari e di governo politico e, al rovescio, una sfiducia sul fatto che il lavoro, appunto, “dal basso”, sul territorio e dentro la società consenta o imponga quello stesso cambiamento. Da noi pare, insomma, affermarsi anche nel sociale una logica “verticale” a discapito di una “orizzontale”, come da tempo è avvenuto nella sfera politica, mutandola geneticamente.

È forse il ciclo dei movimenti che viene a esaurimento, dopo il lento declino dalla ferita del 2001. Eppure, negli altri Paesi in questi ultimi due anni le cose sembrano essere andate in modo diverso, se non opposto, con gli Indignados e Occupy Wall Street, con la resistenza dei greci, con i fermenti latino-americani e, pur con tutte le diversità, con le rivolte arabe.

La crisi economica globale ha reattivamente prodotto non solo radicalizzazione e conflitto, povertà e disagio, ma anche nuova partecipazione e moltiplicazione dei luoghi della socialità e del riconoscimento, fuori e contro l’atomizzazione individualista cui decenni di trionfo delle merci e del consumo avevano consegnato. Luoghi di resistenza (ma anche la resistenza può essere utile, oltre che nobile, dopo decenni di retorica sull’innovazione, paravento semantico alle logiche di darwinismo sociale) ma anche di possibile ridefinizione della direzione del cambiamento necessario, di ricostruzione del “noi”.

La riconversione ecologica dell’economia, la ricostruzione di senso e di legame sociale hanno forse maggiori possibilità di crescere nei movimenti e sul territorio che non negli spazi sclerotizzati di una politica che ha subito trasformazioni antropologiche e probabilmente irreversibili, mediatizzata e verticalizzata, integralmente subordinata a processi decisionali sovranazionali e imperscrutabili.

I dubbi, insomma, sono tanti e legittimi, pur nella fiducia e stima in molti di coloro che hanno scelto di transitare dall’impegno sociale e sindacale a quello politico-parlamentare.

Ci auguriamo che possano essere una spina nel fianco delle istituzioni e che sappiano restituire alle riforme un significato progressivo e un contenuto di giustizia sociale, a dispetto della falsificazione del vocabolario introdotta in questi anni da governi e culture, invece, reazionarie. Se invece si aspettano di fare rivoluzioni, più o meno civili, occorre dire che hanno sbagliato il luogo. Le rivoluzioni si fanno nelle strade, nel territorio e nel sociale; quelle dall’alto e da dentro, storicamente, non realizzano radicalità e cambiamento ma continuità, trasformismo e demagogia.

 

 


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