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Il doppio standard. Retorica della resistenza e lotte armate, tra Ucraina e Kurdistan

di Pasquale Pugliese

Come sappiamo, in un paese come il nostro dove la Resistenza antifascista ha rappresentato una parte fondamentale dell’identità repubblicana, la partecipazione alla guerra con la fornitura di armi al governo ucraino ha fatto massicciamente leva anche sulla retorica della resistenza, attraverso un ripetuto parallelismo tra la resistenza italiana negli anni 1943-45 al nazifascismo e la “resistenza” degli ucraini all’occupazione russa. Una retorica che ha colpito intenzionalmente anche l’Anpi ed il suo presidente Gianfranco Pagliarulo a causa della legittima critica verso l’invio di armi, in particolare nelle settimane precedenti le celebrazioni del 25 aprile. Ma si tratta di una “retorica”, appunto, costruita per toccare i tasti emozionali profondi di una parte sensibile del Paese – orientandola sul “dovere morale” di armare questa “resistenza”, analogamente all’invio di armi alleate a beneficio dei partigiani italiani – anziché contribuire a svolgere un’analisi ragionata di similitudini e differenze. Che, invece, è necessario fare per punti successivi.

1. La guerra in Ucraina è una guerra tra due Stati, in cui quello occupato, l’Ucraina, esercita la propria legittima difesa – secondo l’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite – rispetto a quello occupante, la Russia. La legittima difesa ucraina, alla quale i paesi NATO inviano armi già da prima dell’invasione, è condotta con l’esercito regolare – con la coscrizione obbligatoria di tutti i maschi tra i 18 e i 60 anni – seppur infarcito da truppe mercenarie e milizie ideologiche. In questo secondo caso, inoltre, si tratta di milizie apertamente e dichiaratamente di ispirazione ed osservanza nazista. Quindi di quanto più lontano ci possa essere dalla Resistenza italiana ed europea e dalla sua natura volontaria, popolare ed antifascista.

2. Mentre la Resistenza italiana – all’interno di un conflitto bellico mondiale – ha svolto un ruolo importante sul piano politico ma limitato sul piano militare e, soprattutto, orientato ad accelerare la fine della guerra con la liberazione del Paese dalla truppe naziste e dagli alleati fascisti, l’invio di armi al governo ucraino ha puntato esplicitamente – dal punto di vista delle reiterate richieste del governo Zelens’kyj – all’allargamento della guerra sul piano globale. Mentre quella resistenza puntava a chiudere la seconda guerra mondiale, questa “resistenza” punta ad aprire la terza. Non solo dentro al territorio ucraino, ma con il coinvolgimento attivo dei paesi occidentali e direttamente tra le potenze nucleari, USA e Russia.

3. C’è un’equazione fallace tra Resistenza, resistenza armata e invio di armi al governo ucraino: la resistenza italiana ed europea non è stata solo armata, anzi la componente armata sul piano quantitativo è stata minoritaria rispetto a quella non armata, civile, nonviolenta, che ha coinvolto milioni di persone a cominciare dalle donne. Nonostante i molti studi a riguardo (da Anna Bravo ed Ercole Ongaro in Italia a Jacques Semelin in Europa, per citarne solo alcuni), questo aspetto è assolutamente sotto raccontato sui manuali scolastici, ancora sostanzialmente impregnati di una storiografia che sostanzialmente trascura quei processi sociali e politici nei quali i conflitti non sono stati risolti con la violenza, ma con metodi ad essa alternativi, e nei quali il sangue è stato risparmiato, anziché versato. E’ quanto ribadiscono anche, nella loro recente “Lettera aperta” pubblicata su il Manifesto del 4 luglio, alcuni docenti e studiosi di storia – “la narrazione manualistica della Storia, nonostante ormai opportunamente comprenda aspetti della vita sociale delle varie epoche e abbia ampliato il suo interesse per il mondo non occidentale, continua a essere dominata da un’ottica politico-militare e dal filo rosso delle guerre e del ruolo maschile” – chiedendo un aggiornamento culturale dei libri di testo. (Su questi primi tre punti, vedi anche di Giorgio Beretta La Resistenza italiana non si può equiparare a quella ucraina).

4. Sicuramente alla fine di questa guerra nel mercato nero ci saranno tante armi e sicuramente ci sarà un problema per la sicurezza in Europa. Le armi che circoleranno sono molto più pericolose e fino a 10 volte più potenti di quelle del periodo post-guerra in Jugoslavia, quando la ‘ndrangheta andava in quei territori e comprava bazooka e kalashnikov a 750 euro”. E’ l’allarme lanciato da Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, impegnato nelle più importanti indagini internazionali contro la ‘ndrangheta, il primo giugno 2022 nella trasmissione televisiva Dimartedì. Allarme rilanciato il giorno dopo, 2 giugno, dal segretario generale dell’Interpol, Jurgen Stock il quale ha dichiarato: “I criminali stanno già adesso, mentre parliamo, concentrandosi su queste armi. I gruppi criminali cercano di sfruttare queste situazioni caotiche e la disponibilità di armi, anche quelle utilizzate dai militari e anche le armi pesanti. Quando le armi non saranno più utilizzate, emergeranno come armi illegali. Sappiamo questo sulla base dell’esperienza maturata in altri teatri di guerra” (Rai News, 2 giugno 2022) . Ma noi sappiamo anche, già da Antonio Gramsci, che la storia insegna ma non ha scolari.

5. Questa retorica della resistenza, porta con se – inoltre – un corollario, culturalmente rilevante, che sta ribaltando alcune evoluzioni civili che, tutto sommato, sembravo acquisite nella sensibilità comune. Fino a poco tempo fa, c’è stato nel nostro paese un pressoché universale riconoscimento del valore delle leadership che, pur all’interno di gravi conflitti, hanno avuto la forza di rinunciare alla lotta armata nell’impegno contro oppressori, invasori e dittatori: da Mohandas Gandhi a Martin Luther King, da Nelson Mandela a Yasser Arafat, da Jan Palach a Tich Nat Han e così via. In alcuni casi fin dall’inizio, in altri man mano con la maturazione della consapevolezza della contro-produttività della violenza, l’eroismo veniva comunque riconosciuto unanimemente risiedere nella rinuncia volontaria all’uso delle armi e questi personaggi sono passati alla storia del ‘900 dalla parte dell’avanzamento della civiltà. Oggi l’esaltazione ossessiva dei media, della politica e dell’editoria per chi reclama solo armi su armi, sempre più potenti, che chiama il mondo alla “guerra di civiltà”, costringendo tutti i maschi adulti all’arruolamento forzato – come dimostrano le innumerevoli pubblicazioni in italiano dei discorsi di guerra del presidente Volodymyr Zelens’kyj – rappresenta un pericoloso salto all’indietro. Un cambio di paradigma culturale, trasmesso anche attraverso un’ostentata e ossessivamente ripetuta estetica della guerra, con il quale è stato sdoganato nuovamente l’esercizio della lotta armata, non solo come extrema ratio ma come modello prioritario, imprescindibile ed eroico di stare nei conflitti.

Che tutto questo, infine, sia un esercizio retorico del “marketing della guerra” (Nico Piro, Maledetti pacifisti, 2022) è confermato dal fatto che vere e proprie resistenze contro eserciti occupanti nel pianeta sono molte – dalla Palestina al Sahara occidentale al Kurdistan, territori occupati rispettivamente da Israele, Marocco e Turchia, per citarne solo alcune (e tacere delle resistenze afghana e irachena all’occupazione occidentale) – eppure per nessuna di queste è invocata la necessità dell’invio di armi da parte della NATO. Anzi, proprio l’eventuale uso delle armi le fa derubricare da “resistenza” da sostenere a “terrorismo” da combattere. L’atteggiamento specularmente opposto rispetto all’occupazione russa dell’Ucraina fa emergere in tutta la sua evidenza il doppio standard rispetto alle “resistenze”, ratificato ufficialmente – nella sua tragica plasticità e crudezza – al recente vertice NATO di Madrid nel, quale per superare l’iniziale divieto turco all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza atlantica, sono state inserite nell’elenco delle organizzazioni terroristiche internazionali proprio le forze della resistenza kurda, secondo le condizioni poste dal presidente Erdogan. Nonostante l’impegno kurdo, in particolare delle donne, profuso strenuamente anche contro il cosiddetto Stato islamico. Nonostante il presidente Draghi, in visita ufficiale in Turchia con mezzo governo il 4 luglio per siglare importanti accordi commerciali, anche di carattere militare, avesse definito Erdogan “un dittatore” poco più di un anno prima (8 aprile 2021). Ma anche rispetto a dittatori e autocrati vige e prospera un doppio standard internazionale, tra amici e nemici.


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