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Economia & Impresa sociale 

Il rischio dinastico nelle remunerazioni dei top manager

di Marcello Esposito

Si riaccende la polemica sulle remunerazioni dei Top Manager. Le nuove nomine delle grandi aziende della pubblica amministrazione in Italia e le buone uscite concesse ai CEO di alcune grandi multinazionali hanno attirato l’attenzione su un problema sempre più sentito da parte dell’opinione pubblica. E’ una ferita aperta che paradossalmente brucia ancora di più nella patria del liberismo, gli USA.  Da un lato, esiste la consapevolezza che gli eccessi dei Top Manager sono tipici di una società decadente: mentre veniva annunciato il sorpasso della Cina rispetto agli USA, i giornali riportavano il record dei bonus, 300 milioni, per il CEO di Ford. Dall’altro, si sta sbriciolando la convinzione che il libero mercato sia da solo in grado di correggere comportamenti eticamente devianti ed economicamente inefficienti.

Piketty, l’economista francese autore di “Capital in the Twenty-First Century”, il libro che è al centro del dibattito economico e politico negli Stati Uniti, attribuisce anche alla figura dei super-manager l’aumento della diseguaglianza nei paesi occidentali. Piketty integra l’evidenza aneddotica ormai sotto gli occhi di tutti con una tale mole di dati da azzerare il paradigma di Kuznets, su cui per 60 anni era stata costruita l’illusione dell’effetto “trickle down”. Se ricordate in questo blog (qui) avevo risposto alle critiche che giornali come il Financial Times avevano mosso all’Evangelii Gaudium proprio su questo punto. Piketty dimostra in termini scientifici che la riduzione della diseguaglianza che Kuznets aveva osservato non era dovuta all’azione delle forze competitive del libero mercato ma ad eventi fortuiti (le guerre) e a scelte politiche (l’emergere del welfare state).

Il caso delle retribuzioni principesche dei super-manager è una chiara dimostrazione del fatto che la diseguaglianza non ha nulla a che vedere con il merito. Le aziende non sono diventate più produttive o più innovative di quanto non lo fossero 30 o 60 anni fa. Al contrario. Basta mettere a confronto la remunerazione di Scaroni con quella di Mattei, la remunerazione di Geronzi con quella di Mattioli, la remunerazione di Marchionne con quella di Valletta e mettere poi a confronto i risultati ottenuti per capire che non esiste alcuna relazione con il merito effettivo. Lo stesso vale per gli Stati Uniti e per gli altri paesi europei.

Bisogna ovviamente distinguere tra “Imprenditori” e “Top Manage”r. Se infatti esiste una maggiore accettazione sociale nei confronti della ricchezza accumulata dagli “imprenditori”, la tolleranza è minima nei confronti dei manager privati (e della casta dei funzionari pubblici). Agli imprenditori si riconosce infatti una capacità di rischiare anche personalmente e un mix di doti (tecniche e umane) fuori dal comune. Dietro il “miracolo” di una nuova impresa c’è il “miracolo” di un nuovo prodotto o di un nuovo servizio e quindi si tocca con mano la forza creativa e generatrice dell’imprenditore. Inoltre, nel caso dell’imprenditore le fortune si concretizzano nel valore della propria azienda, al cui destino rimane vincolata la vita dell’imprenditore. Viceversa, nel caso dei Top Manager il rischio personale è estremamente limitato (nessuno di loro ha mai impegnato la propria abitazione per pagare i fornitori o tranquillizzare le banche), le doti sono soprattutto di natura leaderistica (i tecnici migliori difficilmente fanno carriera oltre le porte di un laboratorio), non esiste alcun legame “vitale” con l’azienda tant’è che le loro fortune si accumulano nel momento in cui lasciano l’azienda. Spesso diventano ricchi nel momento in cui l’azienda soccombe e viene acquisita da un competitor.

Di questi giorni è il caso di Stefan Elop, l’amministratore delegato di Nokia. La Nokia è stata acquisita dalla Microsoft e Elop ha incassato una buona uscita di 25 milioni di dollari. Durante i quattro anni della dirigenza di Elop, la Nokia è passata da $2.1 mld di profitti e vendite di smartphone pari a  28 milioni di pezzi ad una situazione di perdita, con vendite calate a 8 milioni. Quel che è peggio è che durante l’amministrazione di Elop gli azionisti di Nokia hanno perso oltre 1/3 del valore investito. Come è possibile pagare così tanto una persona che, magari avrà anche evitato un disastro maggiore, ma certo non ha creato molto valore? Beh, Elop era un manager Microsoft e … torna ad essere un manager Microsoft. Microsoft è la società che ha comprato Nokia. Per cosa e da chi viene remunerato quindi Elop?

Il grosso errore degli aziendalisti (che non hanno mai messo piede in una azienda) è quello di pensare che lo “short-termism” fosse da attribuire agli azionisti. Nulla di più sbagliato. Guadagnando così tanto, per i Top Manager l’importante non è il lungo periodo. Bastano pochissimi anni per arricchirsi e trasformare la propria famiglia in una dinastia.

Il caso da manuale è comunque quello di Alan Mulally che tra pochi mesi lascerà la carica di Ceo di Ford Motors, che ricopre dal 2006, con un pacchetto di azioni e stock option che vale 300 milioni di dollari. Ford è l’unica azienda automobilistica americana a non essere fallita durante la crisi. Ma la crisi è scoppiata due anni dopo che Mulally è stato nominato Ceo e chiunque abbia lavorato in un’azienda anche di dimensioni piccole sa che in due anni non è possibile imprimere una svolta tale da evitare un default. Il risultato è evidentemente da attribuire alle generazioni passate di manager e al middle-management attuale. Se Mullay fosse capace di un’opera così titanica, avrebbe dovuto portare la Ford ai massimi mondiali di tutti i tempi nei 6 anni successivi al fallimento dei suoi due competitor. Ma questo non è accaduto. Così come non accadrà che l’azienda fallirà nei primi due anni senza il Dio-Mulally.

Sono tanti o sono pochi 300 milioni? Un criterio oggettivo per rispondere a questa domanda non esiste. Anche il confronto storico con i manager di 50 anni fa, quando Ford e GM dominavano il mondo dell’industria automobilistica mondiale, potrebbe essere considerato non appropriato e si potrebbe obiettare che magari allora i manager, pur essendo più bravi di quelli di oggi, si facevano pagare troppo poco. Personalmente, preferisco usare un criterio “dinastico” e calcolare se la somma ricevuta da Mullay consente la creazione di una “dinastia” di potenziali nullafacenti che potranno vivere alle spalle della comunità per oltre un secolo.

Quanto valgono 300 milioni di dollari in termini “dinastici”? Ipotizzando che la dinastia abbia un tasso di fertilità medio (2 figli a coppia), che il tasso di crescita dei salari sia lo stesso del tasso d’interesse sul patrimonio, che gli eredi siano degli assoluti nullafacenti che si limitano a prelevare dal patrimonio una cifra pari a 2 volte il PIL pro-capite USA (27.000 US$) e quindi ogni famiglia (4 componenti) discendente da Mullay si conceda un decoroso tenore di vita annuo di poco superiore ai 200.000 dollari annui (il 95mo percentile, pari a circa 4 volte il reddito di una famiglia media americana)  … dovremo aspettare l’anno 2164 (quindi 150  anni) prima che gli allora 160 eredi di Mulally si debbano rimettere a lavorare per guadagnare la pagnotta. Se, invece, il tasso di fertilità fosse pari a 1 … ci vorrebbero oltre 1000 anni per prosciugare il tesoretto dell’Avo Mulally.

E’ evidente il rischio che corre un sistema socio-economico dove la selezione del più “forte” viene indebolita dalla creazione di dinastie. Il mercato deve consentire al più “forte” di prevalere economicamente ma il sistema politico deve fare in modo che ogni generazione mantenga intatto l’incentivo a competere, limitando quindi la possibilità per i più “forti” di interferire con i meccanismi di selezione attraverso l’accumulazione di ricchezze spropositate che consolidino le posizioni relative per i loro discendenti, indipendentemente dalla bravura.


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