Non case, ma città

di Marco Percoco

Il 6 novembre 1954, Giorgio La Pira, nel consegnare alcune case popolari durante il suo mandato da sindaco di Firenze, pronunciò un discorso in cui spronava i suoi concittadini a partecipare attivamente al processo di costruzione della città. Ciò che aveva in mente non era tanto lo spazio costruit, quanto lo spazio relazionale, un tema rivoluzionario per gli anni ’50. E’ in questo contesto che propose il motto, invero molto felice, “non case, ma città“, ad intendere che il territorio, soprattutto quello urbano, deve essere riempito e vissuto da relazioni interpersonali.

Le moderne città italiane, soprattutto quelle di medie e grandi dimensioni, non hanno ancora metabolizzato il messaggio di La Pira. Anzi, esistono alcune zone periferiche in cui i gradi di separazione  fisica dal centro diventano gradi di separazione sociale, culturale, economica e ciò si tramuta quasi istantaneamente in forme, anche estreme, di disagio.

La rinascita delle città italiane (ma direi che è un problema comune a molti paesi) passa dunque per una rivitalizzazione delle periferie, luoghi in cui anche l’architettura diventa ostile all’uomo, contribuendo in maniera decisiva allo straniamento. Renzo Piano ha per questa ragione proposto dei progetti di “rammendo” delle periferie, ovvero azioni che vadano a riqualificare lo spazio costruito perchè quello relazionale possa beneficiarne.

Ho letto qualche giorno addietro in un bell’articolo  di Padre Giacomo Costa in cui si parlava proprio della rivitalizzazione delle periferie urbane, proponendo un approccio partecipativo, ripensando, dunque, il loro destino a partire dalle visioni collettive dei residenti. Questa giusta convinzione deriva dall’osservazione che “da concetto spaziale e territoriale, la periferia diventa da un lato esistenziale (legata, quindi, non alla localizzazione, ma a una modalità di vita) e dall’altro culturale”.

Questo metodo è auspicabile venga utilizzato per affrontare finalmente il problema delle periferie, poichè riconosce che una delle questioni rilevanti è rappresentata dalla bassa dotazione di capitale sociale, ovvero di un senso di appartenenza ad una comunità che deve essere ricostruito.

Se questo è il metodo, bisogna, però, indicare delle azioni da intraprendere, e mi pare che almeno due categorie siano importanti.

1. Lo spazio costruito va comunque riqualificato o ripensato, per uno spirito di convivenza ritrovato (interessante è l’iniziativa Serpentone Reload in corso a Potenza).

2. Il punto fondamentale rimane come garantire l’accesso (sociale e spaziale) alle opportunità di realizzazione ai residenti delle periferie e su questo mi pare che la strada da fare sia ancora tanta, troppa.

Nello stesso discorso, La Pira richiama Peguy ed è un monito per noi, dopo 60 anni: “Felici che edificano le città dell’uomo…perchè esse sono l’immagine e il principio e il corpo e la prova della città di Dio!”.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA