Attivismo civico & Terzo settore

Quando il distopico si fa topico

di Paolo Dell'Oca

Quest’estate Eden Hazard, talentuosissimo calciatore, veniva intervistato in uno studio televisivo in Belgio, dopo la semifinale dei Mondiali appena disputata a Kazan’. In Russia. Quello che appariva in studio e negli schermi, infatti, rispondendo in lievissimo ritardo alle domande, non era il capitano belga, bensì il suo ologramma, mentre lui in quel momento era appollaiato su uno sgabello negli spogliatoi dello stadio.

Aiutami, Obi Wan Kenobi, sei la mia unica speranza.

Facciamo più di un passo indietro, rimanendo nel calcio. Era qualcosa come il 1998, Eden Hazard aveva sette anni e la saga di Guerre Stellari era ancora una trilogia. In vacanza di Capodanno tra amici realizzammo su un videogioco (Pro Evolution Soccer) una squadra, l'Italia, composta da noi. Proprio da noi: ogni giocatore di quella squadra era uno (o una) della compagnia, con valori generosamente rappresentativi della sua abilità calcistica e dalle fattezze fisiche similari.

Devo scriverlo? Scacchi, nostro capitano, alzò la Coppa del Mondo dopo un torneo in cui giocammo passandoci i joypad di mano ogni 45’.

Da lì è un attimo che ti trovi (che mi trovo) a guardare su gazzetta.it le partite tra squadre condotte da intelligenza artificiale, ma schierate come nella realtà. Cosa significa? Domani c’è Milan – Juventus e se volessi provare a sapere quanti gol prenderemo potrei accendere la Play e fare giocare contro le due squadre settate come nella realtà (formazioni, posizione in campo, marcature, tattiche, strategie, forse perfino stati di forma), guidate dall’intelligenza artificiale del gioco, senza che io giochi. Il sito della Gazzetta fece l'esperimento in passato per qualche partita, e io quelle partite me le guardai anche.

C’è poi chi dice che la Germania sia uscita dall’ultimo Mondiale perché i calciatori passavano le notti a giocare a Fifa18 in camera e le mattine successive erano stravolti, ma quando una squadra esce ai gironi se ne dicono di ogni. Arrivarci, ai gironi.

La coppa del mondo giocata di notte tra amici ai videogiochi più importante di quella giocata di giorno dal vero? Beh, per noi che incredibilmente non eravamo stati convocati da Cesare Maldini forse sì, per i giocatori della Germania probabilmente no. E per tutti gli altri?

Ci s’interroga provocatoriamente su quando gli eSports entreranno a far parte delle discipline olimpiche. Ci sono momenti di un’epicità altissima, come la finale dell’EVO (Evolution Championship Series) del 2004 di Street Fighter 3, quando Daigo Umehara, il cui Ken è rimasto ad un pixel di vita residua, riesce a rispondere ad una mossa speciale da 15 colpi dell’avversario, Justin Wong, muovendo la leva direzionale 15 volte con una disumana precisione al nanosecondo. Per capire, senza intendersene, cosa diavolo sia riuscito a fare questo gamer professionista è emblematico vedere come reagì il pubblico in quella sala.

Quella sala negli anni diventa palazzetto, perché il pubblico aumenta e non solo in Giappone: all’edizione del Lucca Comics and Games dello scorso finesettimana, le sfide videoludiche competitive (anche di un gioco per smartphone come Clash Royale) si sono tenute nella cattedrale sconsacrata di San Romano.

Wow. E se i gamers prendono le chiese, i robot entrano nelle redazioni dei telegiornali: questa settimana in Cina ha esordito come anchorman un cortese presentatore, un mezzobusto che non ha mancato di spiegare come esso (o egli?) sia instancabile e autoapprenda le notizie che gli vengono immesse nei circuiti.

Decisamente altro rispetto a Boncompagni che abitava i padiglioni auricolari di Ambra e due anni fa l’ottimo Josè “Pepe” Mujica ne ha parlato ai giovani studenti di Ferrara:

“Tra pochi anni vedrete i robot sostituire l’uomo ovunque, generando valore con efficienza. È qualcosa di inevitabile, non opinabile, che vi piaccia o meno. Il mondo assisterà a dure lotte per il reddito minimo solo per il fatto di esser nati, per la riduzione della giornata lavorativa, per la moltiplicazione dei beni pubblici. Ci sarà la necessità di creare ricchezza, dato che i robot aumenteranno la produttività ma non consumeranno. Sarà una necessità imposta dall’economia.

Assisterete inoltre alla possibilità di disporre di maggior tempo libero. Questo porterà con sé vantaggi e svantaggi, perché i robot lavoreranno per i loro padroni, non certo per l’umanità intera”.

Terrific, eh. Che in inglese significa sia spaventoso che stupendo. D’altronde in pochi anni un attrezzo come lo smartphone è diventato indispensabile e ci mette in tasca quella che nella giornata di apertura dei festeggiamenti dei 100 anni di Vita & Pensiero, con Miguel Benasayag e Maryanne Wolf, è stata definita la terza rivoluzione antropologica.

Provate a seguitare la lettura, giuro che sto per finire.

La prima rivoluzione antropologica è stata la parola: con essa il 40% del patrimonio di conoscenza di ogni singola persona è diventato indiretto perché non proveniente dalla propria esperienza, ma raccontata da un altro. Con la scrittura questa percentuale è cresciuta al 70%, per poi diventare il 90% con la rivoluzione digitale. Ormai impariamo pochissimo per esperienza diretta del nostro corpo e, quando avviene, per quel 10% di informazioni che apprendiamo sulla nostra pelle, noi non ci fidiamo.

Wow.

C’è un cambiamento in corso, in noi, nel nostro tempo. È un cambiamento che possiamo anche ignorare, ma lui non ignora noi.

A volerlo esplorare se ne può leggere, per esempio ne scrive appassionatamente Baricco in The game, o cercare online (e dove, se no?). Ora, scusatemi, ma mi sto scaricando.


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