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Non si diventa fundraiser leggendo un libro

di Elena Zanella

Il tema andava affrontato prima o dopo, perché tra fundraiser ci si confronta e ci si stupisce con quanta leggerezza la nostra categoria venga messa alla gogna di quando in quando a causa di personaggi che ci provano, con scarsi risultati, a improvvisarsi tali. Detto ciò, ecco la mia provocazione che sono certa non rimarrà inascoltata.

Come si diventa fundraiser? e a partire da quando ci si può definire un fundraiser?

Comincio io. Per essere un fundraiser non è sufficiente leggere un libro, pur completo che sia. Parimenti, non è sufficiente un corso di un week-end. O due. E nemmeno tre. Va meglio, anche se non è né condizione necessaria né tantomeno sufficiente, seguire un master o un corso universitario per definirsi fundraiser.

Esagerata? Affatto. Pensiamoci un attimo: con una laurea acquisisci di diritto un titolo di studio in cui l’ateneo dichiara che hai superato con profitto gli esami di una classe di studio specifica. Quindi, hai acquisiti i requisiti per diventare un professionista ma non puoi definirti tale. Un laureato o neolaureato in scienze della comunicazione non è un comunicatore. Un laureato in ingegneria non è un ingegnere. Un laureato in filosofia non è un filosofo. Allo stesso modo, un’attestazione di management del nonprofit non qualifica a rango di manager del nonprofit. Mi guarderei bene da una scuola che emette un’abilitazione professionale in due week-end. Diamo il giusto peso e il giusto significato alle parole e mettiamole in pratica di conseguenza.

La professionalità si acquisisce in due modi: con la pratica, ovvero il lavoro sul campo, e il riconoscimento. Un comunicatore lo diviene nei fatti nel momento in cui acquisisce competenze e le competenze sono possibili solo con l’esperienza. Un ingegnere o un avvocato divengono tali nel momento in cui dei pari tali li riconoscono e al cui atto segue una regolare iscrizione a un albo. Ancora, una persona diviene professionista nella sua area nel momento in cui viene investita di un compito e tale compito viene riconosciuto pubblicamente.

Ho conosciuto fundraiser volontari con altissime competenze che non sapevano nemmeno di esserlo e, allo stesso tempo, ho parlato con persone che si spacciavano tali ma che, a conti fatti, erano ben lungi dall’esserlo.

Ecco cosa penso: al pari di altre professioni, la professione del fundraiser merita un giusto riconoscimento e una giusta collocazione. Una responsabilità che investe tutti gli attori coinvolti nel medesimo modo:

– il fundraiser nel lavoro quotidiano su di sé. Un lavoro fatto di studio, di test, di relazioni, di risultati: un percorso che è giusto che gli venga riconosciuto;

– le scuole di cui conosco il lavoro eccelso. L’invito è che continuino a dedicare del tempo (più che prezioso) all’educazione civica alla professione del fundraiser e non solo all’insegnamento delle tecniche della raccolta fondi in sé;

– l’organizzazione nonprofit affinché scelga con cura la persona, o le persone, alle quali affidarsi nel proprio approccio al fundraising. La variabile discriminante, benché comprensibile, non può essere il peso del preventivo o il “costo” della risorsa ma lo spessore dell’offerta (prima) e la qualità dei risultati (poi). Se questo concetto è, di regola, condivisibile sempre, a maggior ragione lo è se gli scopi sono, come in questo caso, di natura sociale per scelta.

Questa è la mia idea e si può essere o meno d’accordo. E tu da che parte stai?

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