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Fundraising Italian Style: professionisti a caccia d’identità

di Elena Zanella

Nel mio ultimo post, ponevo quattro domande, banali forse ma tutto sommato essenziali per aiutare fundraiser e organizzazioni a circoscrivere la professione che ha il compito di favorire la sostenibilità dell’ente e, nel tempo, garantire la sostenibilità (così si dice) del Terzo settore. Brevemente:

1. Di quanti professionisti della raccolta fondi si parla in Italia? 2. Chi sono? 3. Cosa fanno? 4. Dove vogliono andare?

La risposta? Povera se non nulla. Non capisco. Tre sono le possibili risposte:

1. Timidezza? 2. Carico di lavoro eccessivo? 3. Disinteresse?

Su Nonprofit Blog, cerco di esplodere, sebbene velocemente, questi tre punti e lo faccio rivolgendomi, in modo particolare, al professionista e lettore del blog. Ma cosa pensa l’ONP? E’ davvero disinteresse? Se così fosse, c’è di che preoccuparsi.

Riccardo Bonacina (@rbonacina), so che mi perdonerà se lo cito, mi parlava di “inesistenza del punto di vista dei fundraiser”. E questo non va bene. Così, la collega Elena Cranchi (@LaCranchi) in un suo ultimo intervento a proposito dell’esperienza della raccolta fondi nel real di Flavio Briatore The Apprentice: “molte volte non facciamo cultura ma ci lamentiamo se gli altri ci copiano” (vai al post di Lorenzo Maria Alvaro).

Appunto.

Per quel che mi riguarda, sono solita giocare a carte scoperte, mettere tutto sul tavolo e poi cominciare a fare ordine. Ma le cose sul tavolo vanno messe tutte, a cominciare dalla volontà di mettersi in discussione. Ma qui, forse, sta il vero problema. O no…


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