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L’etico e il lecito nel fundraising. Quale compromesso

di Elena Zanella

A distanza di tre mesi, non riesco ancora a guardare la foto del piccolo Aylan Kurdi, trovato senza vita a 3 anni sulla spiaggia turca di Budrum mentre con il fratellino Galip, mamma e papà cercava di raggiungere un futuro più felice, scappando dalla guerra e dalla ferocia in Siria. Anche ora che sto scrivendo questo post e mi devo in qualche modo documentare per non sbagliare date, nomi, situazioni. Sono una mamma e come tale il mio animo rifiuta questo genere di immagini. Mi fanno male dentro, così come ancora mi fa male il pensiero dei tanti bimbi affogati oltre 2 anni fa nella stiva di un barcone, cercando di raggiungere le nostre coste, cui mi riferivo in un mio post su questo blog il 20 novembre 2013, in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia. O dei tanti bambini le cui storie, tutte uguali, ci arrivano dalle pagine dei giornali e ci raccontano nuove sofferenze.

Il parlare di comunicazione applicata al fundraising durante il mio intervento all’Università di Genova mi ha fatto pensare. Sì perché ci sono cose che non sempre sono chiare subito e riesci a metterle in fila in modo ordinato perché qualcosa ti scatta dentro. E’ in quel momento che vedi tutto sotto un’altra luce e tutto assume contorni decisamente più definiti e regolari.

Ti accorgi così che non tutte le immagini sono uguali. Ci sono storie che ti toccano dentro e che ti fanno male. Altre, invece, ti fanno pensare. Altre ancora ti irritano, lasciando l’amaro in bocca. Ci sono immagini che scuotono il mondo e che vanno viste, che è giusto vederle. Altre no. Altre semplicemente sono strumentali anche se di fatto raccontano drammi. Drammi, ripeto, non esperienze.

Ho letto con estremo interesse il post di Sergio Marelli della scorsa settimana sul suo blog su Vita.it. Ne condivido le tesi che non si allontanano dalle mie, perché sì, signori, ci vuole dignità come prima cosa in quel che facciamo. Dignità verso chi serviamo perché noi, attraverso il nostro lavoro, serviamo qualcuno e questo non va dimenticato. Seppur di difficile applicazione, trovo interessante la tesi per cui occorra educare il cittadino donatore a non farsi impietosire dalle campagne di comunicazione sociale buoniste. Obiettivo arduo ma economicamente efficace, come l’economia insegna. Tuttavia, differentemente da Marelli, appunto perché questa strada la trovo difficilmente applicabile, ritengo sia indispensabile passare attraverso una sensibilizzazione e una scelta che provengano dagli operatori. Quindi, sì, bisogna parlarne con chi regola il mercato della comunicazione e può permettersi di promuovere iniziative a sostegno della buona comunicazione che favorisca le buone forme di accettazione e comprensione del dono a fin di bene.

La “pornografia del dolore”, come riporta Nino Santomartino di AOI nel suo bel post su Repubblica di cui ti invito alla lettura, è una cosa su cui necessariamente tornare in tempi brevi e discutere.

In termini di raccolta fondi, diventa poi una questione di priorità: cassa o dignità? Sempre in bilico tra l’etico e il lecito. Diventa quindi una scelta di marketing. Di posizionamento. Di questo si parla. Ma no, non è possibile stare in bilico a lungo perché prima o poi da una parte o dall’altra si cade, è il mercato che te lo impone. Perché qui sì che poi a scegliere è il singolo ed è il singolo che poi riflette, elabora, fa le sue scelte e vaglia la coerenza esistente tra immagine prodotta e immagine riflessa; tra missione dichiarata e percepita.

E allora finisci con il pensare perché hai scelto che il tuo modo di fare fundraising e il tuo modo di applicare comunicazione e marketing alle tecniche di raccolta fondi si basi sui valori dell’esperienza e non sul dramma. Il dramma spacca, rompe, lacera. L’esperienza accompagna, forse più lentamente come più lentamente porta ai risultati ma il cambiamento diventa via via radicale perché educa e nell’educare, plasma. I comportamenti del singolo si adattano e adeguano. Diventa quindi una questione di scelte, non di compromessi.


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