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Il fundraising e i fundraiser hanno bisogno di metriche. Agiamo ora

di Elena Zanella

Prendo spunto da un post pubblicato sul gruppo Facebook dei Fundraisers d'Italia per tornare a parlare nuovamente della professione del fundraiser e dell'eticità legata alla retribuzione o, comunque, al riconoscimento economico legato all'attività.

Porto l'attenzione su un'urgenza che non può e non deve essere presa sottogamba per la reputazione e la crescita, sana, della professione del fundraiser in particolare e del fundraising in generale.

E' innegabile il fatto che il vuoto che ho più volte segnalato stia raggiugendo dimensioni sempre più preoccupanti.

Sono in particolare due le considerazioni che porto circa la questione:

  • da una parte c'è l'immissione a ritmi consistenti di nuove generazioni di fundraiser, o aspiranti tali, nel mondo del lavoro che cercano di trovare una propria collocazione spendendo competenze che si pensa di avere acquisite dopo un corso più o meno lungo, perdendo di vista che solo l'esperienza – e non il titolo, si badi bene! – e il riconoscimento da parte dell'attività svolta e dei risultati raggiunti può portarti a definirti fundraiser a tutti gli effetti.
  • Dall'altra, il pensiero diffuso che il lavoro del fundraiser si risolva nel bussare alle porte e chiedere denaro: "e che ci vuole, in fondo! Son bravi tutti!". E la convinzione che questo lavoro si debba ripagare da solo, come un contratto d'agenzia. Ricordo: se non c'è convinzione circa ruolo, modi e messa in pratica, non si cava un ragno da un buco – se non per mera fortuna – perché "No Martini, no Party". Detta in altri termini: "No strumenti, no pecunia".

C'è poi una ulteriore riflessione che proprio ieri discutevo con un cliente, davanti a un caffè:

ma siamo poi così certi che vi sia un'offerta di lavoro così consistente?

Se dal lato della domanda vi sono – o cominciano ad esserci – generazioni di fundraiser desiderosi di introdursi in un mercato in forte espansione, dal lato dell'offerta abbiamo generazioni di organizzazioni (o Ets, ndr) disposte ad accoglierli?

Lo chiedo perché oltre "alla disponibilità", e nessuno me ne voglia, occorre "la cultura per" accoglierle nei modi adeguati.

Accanto a queste due questioni, ve ne sono ulteriori che riprendo, aggiornandole, da un mio scritto precedente su queste pagine e anche su altre, a dire il vero (anche qui, qui e qui):

  • Punto 1. La buona causa non è condizione sufficiente per raccogliere fondi o per lavorare gratuitamente e/o a percentuale: se riflettiamo un attimo sulla questione, tutte le cause sono buone, o quasi.
  • Punto 2. Il rischio d'impresa non deve essere del fundraiser. O, almeno, non può esserlo totalmente. Troppo facile riversare su una persona la riuscita di un lavoro così complesso e delicato come quello di un'operazione di negoziazione finanziaria. Perché se questo è l'approccio, di questo sostanzialmente stiamo parlando: di negoziazione. Il fundraising è un processo di negoziazione lungo il più delle volte, in particolare se l'oggetto negoziato ha un valore specifico considerevole. Tutto questo richiede tempo, molto a volte. E perseveranza.
  • Punto 3. Se l'organizzazione non si dà il tempo e non paga il fundraiser, potremmo trovarci idealmente di fronte a due scenari. Primo scenario: l'organizzazione di avvantaggia dei risultati ottenuti grazie al lavoro svolto dal fundraiser che nel frattempo avrà verosimilmente ultimato il suo lavoro all'interno dell'organizzazione. Secondo scenario: l'organizzazione finisce con il vanificare gli sforzi fatti dal fundraiser perché di fatto non valorizza e non riconosce il lavoro svolto dal fundraiser che, nel frattempo, avrà – sempre verosimilmente – ultimato il suo lavoro all'interno dell'organizzazione.
  • Punto 4. L'organizzazione che non valorizza né sostiene il lavoro svolto dal fundraiser, avrà anche poco chiaro il concetto dell'investimento. Se ancora non fosse chiaro: senza soldi, i soldi non si raccolgono. Punto.
  • Punto 5. Per fare fundraising non ci vuole troppo (o troppi soldi): ci vuole il giusto. Un fundraiser che sa fare il suo mestiere chiederà alla sua organizzazione tempo, budget e fiducia perché chi non risica, non rosica.
  • Punto 6. Al fundraiser chiedo: sei un fundraiser o un procacciatore d'affari? Se guadagni a percentuale inquini il mercato nel quale lavori. Ti dirò: si chiama "concorrenza sleale" perché contro chi lavora "gratis" non c'è arma che tenga, se non la consapevolezza che il lavoro e la professionalità si pagano.
  • Punto 7. Il fundraising è una questione culturale. Occorre educarsi a pensare in modo programmato. Al pari di un fiscalista o di un avvocato, è necessario valorizzare il tempo che investiamo perché per essere fundraiser abbiamo studiato, abbiamo speso tempo ed energie, abbiamo fatto esperienza.

Torno a scriverne dunque, ritenendo che più si vada avanti e più diventi urgente parlarne e invito dunque chi di dovere, mi riferisco in particolare alle associazioni di rappresentanza, ad aprire un confronto o comunque a prendersi in carico la questione per cominciare a risolverla.

E' opportuno cominciare a darsi delle metriche per valutare i modi e le maniere di proporsi come professionisti e proporre il fundraising

individuando – al tempo stesso – delle modalità sanzionatorie esemplari, al di là delle parole che vanno bene ma non fanno sostanza. La credibilità di una professione parte da chi la professa, anzitutto.


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