Dialoghi

«Il bene è ostinato. Ma noi?». Dialogo con Maurizio Maggiani

di Marco Dotti

Niente, scriveva Simone Weil, è più «bello, meraviglioso, eternamente nuovo e sorprendente, carico di dolce e perenne ebbrezza, del bene. Niente è più sterile, cupo, monotono, tedioso del male». Ma il bene richiede ostinazione e umiltà. Richiede coraggio. Ne parliamo con lo scrittore Maurizio Maggiani

«Beati noi che ci hanno fatto senza tanti discorsi. E senza tanti discorsi ci hanno portato in chiesa e ci hanno fatto benedire il nome. E ne sono venuti fuori nomi facili da ricordare, senza troppe intenzioni a caricarci le spalle neonate». Inizia con queste parole, che danno titolo al libro Beati noi (Feltrinelli, 2014), l'ultimo lavoro di Maurizio Maggiani. Nato a Castel Nuovo Magra nel ’51, l'autore del Coraggio del pettirosso, libro che nel 1995 lo fece conoscere al grande pubblico e gli valse il Campiello e il Premio Viareggio, parla della sua generazione. Una generazione che ha fatto la comunione sotto Tambroni e la cresima sotto il governo Moro, che non ha avuto il tempo di sentirsi dire se era intollerante al lattosio o al glutine, che nel '56, mentre i carri armati entravano a Budapest, era ancora intenta a studiare Carducci e Berchet. Una generazione che ha assistito al mutamento antropologico di operai che, anziché cantare l’Internazionale, si dilettavano con l’ultima canzonetta del Festivalbar. Una generazione che ha perso l'ostinazione del bene e si è sfilacciata nei mille rivoli del realismo, del riformismo, del nichilismo, del tutto e del niente nascosto dietro un'infinità di chiacchiere da bar che sono diventate chiacchiere da salotto e di governo.

L'umiltà è una virtù adulta

Nei suoi libri, spesso descrive un mondo di ultimi e di umili, capaci però di coraggio e gesti di grande dignità. Come l'Omo Nudo – personaggio di quello che a oggi è il suo ultimo romanzo Meccanica celeste (Feltrinelli, 2010) – che è il miglior norcino della zona, ma i maiali li macella solo per sé. E in spregio a tutte le normative sanitarie, a tutte le circolari ministeriali. Ma prima di ucciderli, i maiali li guarda negli occhi e li chiama per nome, come se si riconoscesse nel loro destino, lui che è un ex internato in un campo di concentramento… C'è una pietas antica, in questa figura, e anche una timidezza che sconfina nel rispetto, a dispetto del gesto cruento (uccidere le bestie con una punta di corniolo)… In fondo, l'Omo Nudo è un povero analfabeta…
Io sono nato in una famiglia di miserabili – di quelli venuti su nella miseria nera, fisica della campagna estremamente arida degli anni ’40 e ’50 – eppure non ho mai, ripeto mai pensato di essere povero. Di quanto fossimo poveri me ne accorgo solo oggi, che ho sessant’anni, e i miei cari sono quasi tutti scomparsi. Anche nei momenti difficili, non sono mai vissuto nell’idea della povertà. Quel senso di umiltà dinanzia alle cose, il rispetto di ogni vita, anche di quella che tragicamente fugge o siamo costretti a lasciar andare (come nell'Omo Nudo), questo l'ho imparato lì. Eravamo poveri. Molto poveri.

Oggi più che povertà, abbiamo miseria. Miseria ovunque. Anche se il pane ai più ancora non manca… In questo passaggio tra povertà ► consumo sfrenato ► nuova miseria l'homo consumens ha perso per strada qualcosa. Come l'analfabetismo di ritorno non è il buon, vecchio analfabetismo, la miseria attuale non sembra aver molto a che spartire con l'antica povertà…
Noi avevamo quello che ci serviva e quello che serviva, oltre al cibo, era una cosa ineguagliabile: l’orgoglio, la fierezza di ciò che eravamo. Dico questo perché la mia vita, e persino quello che faccio adesso, viene tutta da lì. Senza l’educazione alla dignità di quella “miseria”, non riuscirei a immaginarmi, e probabilmente non avrei nulla da raccontare. Sono talmente pervaso da quella educazione che sono entusiasta alla sola idea di poter raccontare – in un libro o semplicemente chiacchierando, come stiamo facendo ora – quanto so di quel mondo. Era il mondo degli ultimi, certo, ma in senso etimologico. Perché se fossimo ancora cristiani, sapremmo che gli ultimi sono quelli più legati alla terra. Sono ultimi che non si sentono ultimi, socialmente parlando, e che raramente, solo nel cuore della loro maturità, diventano anche umili.

L'umiltà è una virtù adulta, quindi?
Sì, perché si impara con gli anni, ma si lega a radici antiche. Essendo nato come sono nato, non mi interessa, o forse non ho mai avuto abbastanza ambizione per tagliar fuori il “da dove vengo”e “da chi vengo”. Io rimango l’uomo che per tutta la vita è stato sulla strada e che, però, ha saputo andare sulla strada quando ha cominciato non solo ad accettare, ma anche a riflettere da dove viene e da chi viene. Proprio perché sono nato molto discosto rispetto a Roma o Parigi o New York, avendo uno sguardo molto angolato rispetto all’ “impero”, mi sono abituato all’idea, peraltro banalissima, che il mondo non è piatto. Il mondo è sferico. Se su un piatto immediatamente individua un solo centro, nella superficie sferica i centri sono infiniti. E quindi la Garfagnana come la Valle di Vals o la Val Brembana sono il centro del mondo, come lo sono Parigi, Roma o New York.

Emigrare, incontrare

Eppure i valligiani hanno fama di essere gente chiusa, dura, esclusa dal corso della storia e dal mondo…
Non c’è niente che sembri chiuso quanto una valle. Per certi aspetti può essere vero. Ma chi ha un po’ di dimistichezza con la montagna, sa che essa è il cuore della mobilità e delle genti. Ci sono più strade sull’Alpe e sull’Appennino – intendo strade millenarie, percorse da milioni di persone, nel corso dei secoli, con i loro carichi di passioni, dolori, storie e speranze – di quante non ve ne siano nelle pianure che, peraltro, fino a tempi relativamente recenti erano malsane, paludose, davvero aperte ai pericoli. Per una necessità che viene dalla povertà e dall’impossibilità, letterale, di cavare il pane dalla montagna, la gente è sempre stata abituata a muoversi. Necessitante e necessitata a muoversi e a incontrare, e magari a incontrare anche solo per sapere, per scambiare e, naturalmente, per emigrare. È stata spopolata l’Italia, con l’emigrazione. E quanti di quegli emigranti venivano dalla montagna? In particolare, per quanto riguarda la mia terra, la Garfagnana è stata totalmente spopolata e, miracolosamente, adesso si sta ripopolando. Se c’è una metafora che può essere universalizzata, nel mio racconto, è proprio questa: così come quella valle, incredibilmente, è stata ripopolata, tutto può essere ripopolato.

Anche il deserto?
Anche il deserto. E magari capire così che che persino il deserto, è un miraggio. Forse “deserto” è solo credere di non aver più bisogno né di andare per strada, né tanto meno di incontrare.

E nemmeno di perdersi o di desiderare. Lei si perde ancora?
Io continuo a perdermi e a camminare. E perdendomi e camminando, desidero. Anche se le gambe non sono più quelle di una volta, cammino e cammino, senza sosta: non trovo altro modo per sentire, vedere e toccare il mondo. Cammino per piccoli paesi spersi, composti a volte di 10 o 15 anime. Anche di giovani, perché le colline e le montagne si stanno ripopolando. Per tante ragioni, la città non lascia spazio, costa, affligge. E allora si ritorna. In questi piccolissimi paesi, chi ci arriva? Ci arriva il pullman una volta al giorno, se va bene. Ci arriva chi ci abita.

Non si aspettano i barbari, insomma…
Ma qui arrivano i venditori ambulanti extracomunitari che vanno dappertutto. Proprio lì dove ha più timori, dove è più chiusa la gente si apre con loro. Con loro parla. Quanti ne vedo che si fermano a chiacchierare e si chiamano per nome. È una necessità che nessuna paura riesce a obnubilarci. Siamo stati vittime di un tentativo massiccio e duraturo di convincerci che non abbiamo più bisogno di nulla. Non nascondo il fatto che si possa aver paura, quando si va soli. Il timore è una condizione che ci appartiene, ma alla fine la necessità dell’incontro prevale.

Perché dovrebbe prevalere?
Perché siamo soli, perché siamo unici. E la nostra unicità comunque va colmata. È un bene, un bene straordinario, questa nostra unicità, ma va colmata E la si può colmare in un solo modo. Per i credenti, quando accettiamo di appartenere a un disegno universale. Per i non credenti, quando accettiamo di appartenere a una storia che si fa disegno. In questo modo, capisci che l’universo è chi incontri.

Anche nella scrittura. L'universo è anche chi si incontra scrivendo, leggendo…
Io non ho tutta questa fiducia nella scrittura. Quantomeno, non ho una particolare fiducia nella mia scrittura. Mi piacerebbe pensare che la mia scrittura possa cambiare le cose. Tutte le sere, prima di andare a letto, mi chiedo che cosa ho fatto per guadagnarmi il diritto di consumare tutto quello che consumo, fosse pure la grande quantità d’aria che respiro, che non è poca ed è preziosa. Non so se ho tutta questa fiducia, però per qualche oscura ragione – e forse sono un po’ stupido e scriteriato, in questo – io penso che certe necessità, certi bisogni non possono essere compressi all’infinito. A scuola, non andavo bene in chimica, ma qualcosa ho imparato. Ho imparato, ad esempio, che i gas possono essere compressi, ma non all’infinito. A volte si possono comprimere milioni di volte il loro volume, però mai all’infinito. Credo che anche che quelle che, banalmente, potremmo chiamare le necessità umane si possono comprimere, ma non all’infinito. Forse mi sbaglio, forse no. Forse è ottimismo senile. Però ho una fiducia cieca nella fisica dei corpi e penso qualcosa non può non accadere, perché è troppo chiaro che è necessità che accada.

Si può vivere senza bellezza?
Ho avuto esperienze che possono sembrare, e in gran parte lo sono, traumatiche. La Bosnia o il Ruanda, durante la guerra civile. Anche a Tuzla, durante il grande assedio, anche a Kigali, durante l’esodo, non è univoca l’accettazione dello stato disperato e disperante delle cose. Anche lì. E se un “disgraziato”, disgraziato quanto più lo può essere, che è stato violentato, che ha visto morire tutto e tutti… se ha anche la minima possibilità di trasformare la sua tenda miserabile – frutto di una carità quella sì veramente miserabile e meschina dei ricchi – da una tana a rifugio, e da rifugio a un luogo dove si può avere un po’ di bellezza e – lo dico nella mia lingua – di sostio, di riposo, di ospitalità, di protezione… Allora la speranza non è perduta. Sostio è una parola romanza, occitanica, e non significa protezione dall’altro, ma protezione dell’anima.

«La vita non è bella. La vita è grande»

Il movimento e il riparo, l'incontrare e il custodire… In questo doppio legame, c'è forse la bellezza di cui si parla in tanti suoi libri?

C'è un espressione che non mi piace: “la vita è bella”. Io non credo che la vita sia bella, credo sia grande. E dentro la grandezza della vita c’è anche la bellezza, naturalmente. La vita è grande anche nelle sue brutture. Accettare, assumere in sé la responsabilità della grandezza della propria vita è il gesto più bello e più generante bellezza che un uomo possa fare.

È un gesto di pazzo ottimismo e di resistenza allo spirito del tempo, non crede?
Nell’atto di accettare la grandezza della propria vita, c’è la linea. Quella che ti porta a resistere allo spirito del tempo. È l’estrema resistenza e dignità della bellezza violata.

Eppure, questa resistenza, che credo coincida com un sentimento di “giustizia”, vine spesso surrogata in un'ansia di legalità… Non trova sia un'ulteriore svilire la dignità dell'esistenza barattare il giusto con il “lecito”?
Io so, scriveva Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera, il 14 novembre 1974. «Io so i nomi dei responsabili delle stragi. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.». Io lo so, ma ma siccome sono un intellettuale e non un giudice, quello che so mi basta. Il punto è questo.

Gli uomini, oggi, e i cittadini perché hanno quest’ansia di legalità giudiziaria?
Perché demandano ad altri. Perché rinunciano alla loro responsabilità di uomini che cercano, che pensano e che prendono delle decisioni intorno a ciò che hanno visto e pensato. Se per ventura della sorte, ci fossimo posti di fronte al dilemma se seppellire il corpo del fratello infrangendo la legge o rispettare la legge, ma lasciare il suo corpo in pasto agli avvoltoi, saremmo in grado di decidere senza ricorrere a una consulenza?

Tanti non agirebbero in attesa di un decreto…
O di un’amnistia.

Anche questa è una forma di quella servitù volontaria che pare contraddistinguere i nostri tempi…
Lo è e funziona. Perché la servitù è apparentemente molto consolatoria. Io come mio padre non sono mai riuscito a stare sotto padrone. Ho fatto mille lavori, da uomo libero, ma precario. Ma è una precarietà che mi sono scelto e non mi ha mai pesato. Ad un certo punto della mia vita, però, ho accettato un posto nella pubblica amministrazione. Ho fatto un concorso, l’ho vinto, ma ho resistito quattro anni. Mi sono rimesso sulla strada, e sono qui. Perché le dico questo? Perché sa quante volte, la mattina, quando riapro la mia bottega, che è mia e dipende da me, ripenso a come era facile andare tutte le mattine e timbrare il cartellino. Bestemmiavi, imprecavi, ti lagnavi un po’, ma poi era facile. Facile e rassicurante… Non critico chi si guadagna il pane onestamente, non è questo il punto. Ma fare sempre la stessa strada, poggiare la mente su un comodino e non sognare più… Non sognare più, in nome della servitù all’orario, al mansionario, al grigiore di giorni comodi, ma senza sorriso.

Ogni mattina, quando apre la sua “bottega” di scrittore che cosa succede?
Semplicemente inizio, con grande pazienza. E se non ho pazienza me la devo far venire, perché lo richiede l'etica di un lavoro ben fatto, per me e per gli altri. E perché un lavoro ben fatto è un frammento di quella bellezza che tutti, ma proprio tutti possiamo e dobbiamo possiamo contribuire a ristabilire nel mondo. Avrei voluto fare l’ebanista o il meccanico fine. Quello che costruisce o ripara il pezzetto, quello he ripara la macchina e, nel particolare, assicura la grande funzione. C’è un’espressione che ho sempre amato, “mettersi al pezzo”.

Chi si mette al pezzo, oggi?
Per esempio quelli che fanno ancora il pane buono. Potrebbero vendere pane schifoso, guadagnerebbero il doppio e faticherebbero meno. Tanto la gente non mangia più il pane, lo acquista per la reiterazione di un gesto e lo consuma quasi per abitudine. Eppure, certi fornai continuano, imperterriti, a impastare e cuocere un pane “fatto bene”. È un gesto del tutto gratuito, se non nei confronti della propria responsabilità di uomo che sa fare una cosa. Ma è in questo gesto che la bellezza si genera. E si genera la vita.

L'OSPITE

Scrive di sè, Maurizio Maggiani: «Sono nato il primo di ottobre del 1951 da Dino, detto Dinetto per il suo animo gentile, e da Maria, detta Adorna in memoria della mula preferita da suo padre, mio nonno Armando, detto Garibà, Garibaldi, per il suo carattere, portamento e tempra politica. Sono nato nella casa costruita da mio nonno con gli scarti della fornace di mattoni del paese a ridosso della via Aurelia, nella frazione Molicciara di Castelnuovo Magra. Quello che ho fatto di buono è andare a scuola, primo e unico nella mia famiglia a spingermi fino a un diploma. Sono stato licenziato con il diploma magistrale e il consiglio di proseguire gli studi alla facoltà di architettura. Tre mesi dopo il diploma facevo già il maestro nella quinta classe di un prefabbricato che faceva da scuola nella periferia operaia della città. Avevo diciannove anni e crescevo assieme ai miei alunni; erano gli anni delle sommosse, ed ero certo di lavorare per il mondo nuovo. Ho ancora quella certezza e penso anche di essere stato un buon maestro; ho insegnato nel corso degli anni in carcere, nelle sezioni speciali per handicappati e in quelle sperimentali per il loro inserimento, e oggi so che è il più bel mestiere che abbia mai fatto».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA