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Il business degli antidepressivi. Intervista con Philippe Pignarre

di Marco Dotti

La depressione è la malattia che si sta diffondendo con più rapidità nel mondo. L'Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che, da qui al 2020, sarà il disturbo mentale più diffuso. Nel frattempo, il business degli antidepressivi si sta divorando una bella fetta di risorse pubbliche e private. Ne parliamo con Philippe Pignarre, ex dirigente di un'importante industria del farmaco, che conosce da dentro i sottili meccanismi che trasformano una causa in effetto e viceversa.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la depressione si candida a diventare il primo problema sanitario, sopravanzando anche le malattie cardiovascolari. Il fenomeno appare dilagare in forma epidemica. Nel 2020, afferma ancora l'’Organizzazione Mondiale della Sanità, la depressione sarà la più diffusa al mondo tra le "malattie mentali" (mental disorder) e in generale la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari.

Nelle settimane scorse, anche il "New York Times" ha lanciato l'allarme, dopo un'indagine pubblicata su "Jama Pediatrics" : troppe prescrizioni, soprattutto tra le donne in gravidanza e i neonati, che sono oramai la nuova frontiera del business delle dipendenze. Per non parlare della fascia di età sotto i 16 anni, la più "attenzionata" dal biobusiness farmacologico.

Secondo i dati diffusi dalla Società Italiana di Psichiatria (SIP), in Italia la depressione maggiore colpisce il 12,5% della popolazione, ovvero 7 milioni e 500 mila persone. Secondo Osservatorio nazionale sull’impiego dei Medicinali (OsMed) dell'Agenzia italiana del Farmaco, in Italia quasi 2,6 milioni di persone assumono farmaci antidepressivi. Siamo tutti depressi e, se ancora non lo siamo, dobbiamo prepararci a esserlo? Chissà.

Per Philippe Pignarre, a lungo responsabile della comunicazione presso la casa farmaceutica Delagrande, oggi editore e autore nel 2010 di Industria della depressione (Bollati-Boringhieri), se cose sono un po' più semplice e complesse nello stesso tempo. Se si vogliono davvero compredere le ragioni di questa "epidemia senza agente infettivo", osserva Pignarre, non bisogna partire dalla coda, ma dalla testa. E la testa, in questo caso, è il biobusiness rappresentato dai metodi di cura. Nel caso della depressione – osserva Pignarre – si è assistito a una inversione di metodo che ha reso cause gli effetti e ridotto le cause a meri incidenti di percorso.

L'outlet della depressione

L’OsMed, l’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali ha rilevato che le dosi giornaliere di farmaci prescritte in Italia sono passate dalle 58 del 2000 alle 924 del 2009, con un incremento del 60%. Oggi i dati sono saliti ancora, "segno della crisi economica" – ci dicono – e della caduta della stigmatizzazione della patologia Gli antidepressivi a totale carico del sistema sanitario italiano sono invece lievitati del 408%. Ogni giorno, tre italiani su cento assumono antidepressivi. Siamo diventati tutti depressi?

La depressione è la "malattia" che si sta diffondendo con più rapidità nel mondo. Un tempo, alla "depressione" si dava meno importanza. Ma in una società ossessionata dal successo e dalla riuscita individuale, il rifiuto dei valori collettivi e il disperdersi si ogni legame, la perdita di energia, la tristezza, tutto ciò che è possibile far rientrare sotto il nome di "depressione" hanno qualcosa di insopportabile. Probabilmente, sotto il termine "depressione" classifichiamo tutta una serie di difficoltà, di problemi, di dubbi, che prima non eravamo abituati a collegare tra loro, arbitrariamente o meno. Pensiamo alla "timidezza eccessiva", che alcuni sostengono vada considerata tra le "turbe mentali"!

È sufficiente guardare “nella testa” delle pesone, se si vuole comprendere il meccanismo che genera la mondializzazione del disturbo depressivo o bisogna guardare anche “fuori”, nel marketing, nella comunicazione, nel mercato?

Si inganna la gente, se le si fa credere che si sia capaci di guardare "dentro la testa" dei pazienti. La questione è che ogni genere di problemi mentali (la schizofrenia, per esempio) si possono cogliere solo ascoltando il paziente e la sua famiglia e, dopo l’ascolto, esprimendo una diagnosi. Il problema è che si avanzano ipotesi autonome sul funzionamente delle persone depresse o schizofreniche. Queste ipotesi vengono elaborate in funzione di ciò che conosciamo dell’azione delle varie terapie. Quindi è il farmaco, non la persona la pietra angolare del ragionamento medico! Sappiamo, ad esempio, che gli antidepressivi agiscono sulla seratonina e, quindi, si fa in modo di elaborare una "ipotesi seratoninergica" della depressione. Sappiamo che i neurolettici usati per il trattamento della schizofrenia agiscono su una sostanza in circolo nel cervello, la dopamina. Dunque? Dunque si elabora una teoria in base alla quale si dice che vi sarebbero pazienti con problemi di seratonina o dopamina. Si inverte il ragionamento scientifico, e quello tra causa e effetto, con poca scientificità mi pare. Non è certo perché non dormite bene, che il vostro cervello manca di qualche sostanza naturale e risponde agli stimoli delle benzodiazepine (usate come sonnifero). I farmaci psicotropi sono buttati sul mercato con la velocità con la quale si formulano ipotesi come quelle a cui ho fatto cenno. E si spende molto in pubblicità, per divulgare queste ipotesi, conferendo ai farmaci un’aura di legittimità. Così facendo si rinsalda la fiducia dei medici nella loro capacità taumatugica. Alcuni ricercatori arrivano ad affermare che gli antidepressivi altro non sarebbero che placebo. Ma la pubblicità e la fiducia che li circondano aiutano a fare la differenza…

Che differenza passa tra l’impero della “depressione” e quello di tutti gli altri farmaci?

In molte malattie, si è riusciti a isolare una costante biologica che è diventata anormale. L’obiettivo della cura è quello di ristabilire la sua normalità. Per fare questo, si dispone di analisi di laboratorio (prelievi del sangue, ad es.), per permettano di agire indipendentemente da ciò che pensa il paziente (che può essere malato senza saperlo, e senza mostrare sintomi o segni visibili a occhio nudo). Questa costante biologica non è per forza di cose la causa esatta e ultima della malattia, ma permette di avvicinarsi ad essa. Permette anche di inventare rimedi biologicamente fondati. Nel caso della psichiatria, tutto funziona diversamente: è solo in rapporto a segni visibili senza esami diagnostici di laboratorio che si formulano diagnosi. Le cure sono scoperte un po’ a caso (e sempre più copiando o migliorando i primi rimedi scoperti a caso), ma non esiste alcun test biologico che permetta di affermare "questa persona ha la tendenza adiventare depressa o schizofrenica". Non c’è alcun marcatore biologico, e questo produce una differenza enorme.

Il consumatore drogato

I bambini e gli anziani sono tra i soggetti più interessanti, dal punto di vista di questa crescita di consumo.

La questione dei ragazzi è complessa. Soltanto gli americani non hanno esitato a medicalizzare completamente il cosiddetto disturbo dell’attenzione, l’iperattività, proponendo di prescrivere farmaci in quantità enormi. La tradizione europea è più cauta: preferiamo affidare i ragazzi agli psicologia, salvo poi nei casi gravi ricorrere – con una certa ragione – ai farmaci. Con gli anziani, invece, la prudenza viene meno ovunque, anche in Europa.

La quantità di medicine consumate nelle case di riposo è preoccupante. Vengono prescritti neurolettici (normalmente riservati ai pazienti che soffrono di gravi turbe psichiatriche, come la schizofrenia) a persone anziane al solo fine di farle calmare e dormire in continuazione.

Ma nessuno si preoccupa provoca del fatto, d’altronde molto noto, che questi farmaci provocano problemi di memoria, di parola, e via discorrendo. Meno gente avete da sorvegliare, meno personale avrete da impiegare. Il farmaco risolve tanti problemi, anche di welfare e di bilancio. Ma è un crimine contro gli anziani.

La depressione – si legge nel Rapporto 2014 sull'uso dei farmaci in Italia – rappresenta "una delle principali patologie responsabili del carico globale di malattia che, secondo i dati OMS, colpisce più di 350 milioni di persone di tutte le età e in ogni comunità.

“L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale 2014”

La scuola e gli antidepressivi: che legame c’è?

Molte istituzioni producono depressione: certe imprese dove si sviluppano tecniche di gestione del personale che provocano afflizione, per esempio. Quando trasferiamo persone, quando cerchiamo di farle dimettere "spontaneamente" solo perché si ha timore di licenziarle… Queste persone provano depressionesentendosi perseguitate. Ma non è di antidepressivi che hanno bisogno, bensì di cura e di attenzioni più generali… Ma anche nelle famiglie in crisi si sta sviluppando questa idea che, finito l’amore, uno possa distruggere psicologicamente l’altro… Nella scuola, se l’accento è posto sulla competitività e la concorrenza in termini squalificanti e non inclusivi, allora gli effetti non saranno molto diversi e l'antidepressivo diventerà un farmaco prestazionale o, in caso contrario, un perfetto surrogato della vecchia camicia di forza.

Depressi di tutto il mondo

Che cosa dovremmo dedurne? Che sono tutti dei depressi?

Possiamo farlo, certo, ma non avremo prodotto un solo pensiero critico sui procedimenti di esclusione fabbricati dalla nostra società. Certo, parlare di depressione collettiva ha i crismi della scientificità, visto il contesto in cui ci troviamo e coloro che volessero avanzare critiche piuù serrate verrebbero facilmente additati come umanisti fuori tempo massimo e, soprattutto, fuori moda…

È possibile che l’apparente neutralità delle diagnosi e delle prescrizioni nasconda una più profonda “crisi di senso”?

Certamente. Una cosa va detta, sul senso: i tanto vituperati psicologi e psicoanalisti si interessavano ancora ai contenuti dei problemi dei loro pazienti, tenevano in debito conto le loro storie personali. Ma questo non interessa più i medici prescrittori che cercano al massimo di sapere se un uomo o una donna, un bambino o un anziano presentano i segni della depressione che hanno imparato – ma come? – a riconoscere. Non solo, gli stessi malati imparano a sapere ciò che serve ai loro medici e ciò che non interessa loro. Calcolano i loro discorsi, le loro attitudini sull’orizzonte di attesa del medico. Dopo tutto, pensano, se avere una diagnosi di depressione pemette di avere un periodo di malattia e così scappare da un lavoro che non sopportano più, perché non stare al gioco? Perché porsi dei dubbi e porli, al tempo stesso, al medico? Non credo che la psicoanalisi disponga ancora dell’energia necessaria per opporsi a questo terribile inaridimento. Molti persone, infatti, cercano un senso nelle medicine alternative. Ma vista la situazione, possiamo dar loro torto?


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