Christian Lutz

Benvenuti nel deserto del reale: vivere e morire a Las Vegas

di Marco Dotti

C'è un esercito di poveri, che affolla le notti di Las Vegas. Città dell'azzardo e del divertimento, ma anche della disperazione: qui tutto diventa spettacolo. Anche il dolore degli ultimi. Di loro, racconta il reportage firmato dal fotografo svizzero Christian Lutz

Una progressione inesorabile, quella di Las Vegas. Alla fine dell'anno scorso, la capitale dell'azzardo, con le sue cattedrali e i suoi hotel, poteva contare su un giro d'affari legato al gambling di 9,7miliardi di dollari e 42milioni di visitatori. Tanti coloro che, nel 2016, per divertimento, passione, disperata ricerca di un sogno o per partecipare a meeting, convegni, concerti hanno affollato la città del Nevada. Nel 1970, i visitatori erano poco meno di 7milioni e il volume d'affari dell'azzardo si aggirava sui 369milioni di dollari.

Eppure, a guardare sotto la pelle della realtà, si scopre anche altro. Si scopre, ad esempio, che anche in Nevada è arrivata la recessione: disoccupazione al 14%, 1 casa su 7 è sfitta e le riserve d'acqua si stanno esaurendo. La città cresce, ma i miraggi costano. E il prezzo, come sempre, cade sulle spalle dei più poveri. I losers, i perdenti come li chiamano qua.

Città senza notte, città senza tempo. Città dalle mille e ancora mille luci, dove nelle sale slot dei casinò i clienti vengono euforizzati con ossigeno e azoto spruzzati nei locali. Tecnicamente si parla di «oxygen-saturated pleasure air», a cui si aggiungono i suoni, i colori, le luci mesmerizzanti. Un vero e proprio labirinto empatico che trasforma hotel e casinò in trappole multiple, senza via di scampo. Senza un fuori.

Las Vegas è una città che non dorme mai, una città, racconta il fotografo svizzero Christian Lutz, dove lo spettacolo è infinito. Chi ci arriva, talvolta non riparte. Chi ci è nato, non ha altro luogo dove andare. Lutz descrive Insert coin, il suo reportage da Las Vegas, edito da André Frère Éditions (96 pagine, 29,5 euro) , fino a settempre in mostra a Arlés, come un blues.

Christian Lutz si è fatto conoscere con Protokoll (2007) e Tropical gift (2010): il primo incentrato sulla vita di un uomo politico, il secondo sul traffico di petrolio in Nigeria. Poi, nel 2012, è venuto In Jesus’ name, con Lutz che ha seguito per un anno le comunità evangeliche svizzere. Potere politico, potere economico, potere sotteso al legame religioso. Potere dello spettacolo, della società dello spettacolo con Insert Coin (2016), che come gli altri lavori è diventato un libro. Miraggio americano, titolava il Time.

Ogni particella segue il proprio movimento, ogni valore, o frammento di valore, brilla un istante nel cielo della simulazione, poi scompare nel vuoto seguendo una linea spezzata che solo eccezionalmente incontra quella degli altri

Jean Baudrillard, La trasparenza del male

Lutz ci racconta di aver seguito la vita di alcune persone, «in uno scenario post-apocalittico e senza un fuori». Poveri, senza denaro, «gente che ha perso tutto la gioco o, avendo perso tutto, raccoglie quel poco che gli resta per tentare di inseguire il sogno più prossimo alla morte: quello della ricchezza». Ma la morte non arriva, come non arriva la ricchezza. Il baratro è infinito.

«Chi entra a Las Vegas in cerca di ricchezza, difficilmente ne esce ricco». Quasi mai ne esce. «Si cade il uno spettacolo infinito, così vediamo questi disperati mascherarsi, esibirsi per strada, cercare di sopravvere in un clima ipereale e di conseguenza grottesco. È la merce umana che si espone in ogni suo aspetto, perdendo ogni dignità». Non voleva denunciare, né far emergere "fatti", Lutz. «Rispetto il fotogiornalismo, ma io ho un'altra idea delle cose. Credo ci siano troppe parole e troppe immagini. Io vorrei far sentire, più che capire. Sono più interessato alla soggettiva», che all'oggettività. Una sorta di empatia etica guida il suo lavoro.

Questo lavoro, mi spiega Lutz, «è un lavoro sull'illusione e sulla disillusione, sul loro circuito e cortocircuito contrinuo. L'enterteinment, l'elemento del gaming, del gambling, tutto si confonde sotto queste luci, quest'oro che rimanda al denaro e al deserto». Il deserto del reale, appunto. Benvenuti. Ci siamo già dentro.


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