Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Martina Castigliani

«I bambini dicevano: “Tu sai come si taglia una testa? Te lo disegno”»

di Anna Spena

"Cercavo la fine del Mare" è un viaggio, fatto di parole e disegni, dentro i campi profughi della Grecia. Dove gli adulti chiedono di non essere considerati dei fantasmi senza storia e i bambini non sono più solo bambini

«I bambini nei campi profughi puzzano di pipì. Non ci sono abbastanza cambi di vestiti. Nei campi profughi mancano le mutande, devi prendere quelle donate da altri. Dobbiamo ritornare a parlare dei fatti, a insistere sui fatti, così forse ci svegliamo un po’». Martina Castigliani, 32 anni, giornalista. Quando nell’estate 2016 è partita per un mese di volontariato (“e un mese è assolutamente niente rispetto al lavoro dei volontari veri”, ci tiene a sottolineare ndr), non voleva raccontare niente. Ma solo stare lì, aiutare, ascoltare.

Poi invece da quell’esperienza e dal racconto di quell’esperienza fatta in giro per le scuole, è nato un libro “Cercavo la fine del mare – storie migranti raccontate dai disegni dei bambini”, di Mimesis Edizioni.

Disegni, racconti, di uomini e donne che cercavano la libertà e sono diventati fantasmi a causa dell’indifferenza delle istituzioni e di parte dell’opinione pubblica. Quando la lingua non riusciva a stabilire un contatto con gli intervistati, è stato chiesto loro di esprimersi con i disegni. Sullo sfondo di questa tragedia ci sono i greci, popolo tradito dall’Europa quasi quanto i migranti.

​Che si tratti di uomini o bambini, di siriani, curdi, afgani o iracheni, non c’è alcuna differenza: quando i migranti devono disegnare la loro storia, quasi tutti scelgono il pennarello colore blu del mare o rosso del sangue. Leggetelo “Cercavo la fine del Mare”, è un libro onesto. Perché per raccontare il fenomeno migratorio non servono i numeri. Ma, come ricorda l’autrice, i fatti. E le vite di queste persone sono diventate un fatto dimenticato.

Che cos’è la fine del mare?
Dopo gli attentati del 2015 a Parigi, la morte è tornata in Europa tante volte. Ma nessuno mi ha saputo spiegare le ragioni. La tv ha fatto un gran rumore. I politici hanno detto “questa è la guerra”, e non sono sicura che per loro fosse una brutta notizia. Poi un giorno mi sono alzata: ho riempito lo zaino e ho preso un aereo per Atene. Ho pensato che se è una guerra, io voglio sapere il perché. Voglio sapere come si sopravvive. Come si fugge. Voglio guardare negli occhi chi sta dall’altra parte e sapere se loro una risposta al perché l’hanno avuta. La fine del mare è la sintesi dei disegni che hanno fatto i bambini. I bambini ti parlando di cose concrete, non vanno per metafore. I loro racconti sono pieni di concretezza.

E oggi, che siamo nell’epoca delle opinioni sul tema immigrazione, l’unica cosa che ci può salvare è parlare dei fatti.

Perché i disegni?
Non sono partita con l’intenzione di raccontare niente al mio ritorno. Però, in tutti i campi che ho girato, ho intercettato il bisogno di essere ascolti. Non solo di essere ascolti come vittime, ma di raccontarsi in quanto persone. Per questo nel libro non ci sono solo disegni dei bambini. E nei racconti mi sono scontrata con il limite linguistico. E per colmare questo gap l’immediatezza comunicativa del foglio e della matita sono stati utili.

In che senso raccontarsi in quanto persone?
Una delle storie che mi è rimasta più impressa è stata quella di Yassin. Yassin che alle dieci di mattina frigge i falafel dentro al campo come faceva prima di partire. Viveva a Damasco, è finito nel campo di Karamanlis, abbandonato a 70 chilometri dal confine tra la Grecia e la Macedonia. Non importa. Yassin si sveglia all’alba e lavora tutto il giorno, perché quello lo rende un uomo: guadagnarsi il pane, guadagnarsi il rispetto agli occhi dei suoi sette figli, mantenere la dignità. “Al Massry Falafel”, recitava l’insegna. Quando disegna il suo shop, parte proprio da quella scritta che luminosa sovrastava l’ingresso. Poi due piani e decine di tavolini, con la parte superiore riservata alle famiglie numerose. “Come la mia”, dice orgoglioso. Poi una cucina, piccola e stretta, ma che bastava per cucinare il necessario e vivere bene. “Era la mia vita”, dice. Poi unisce le dita e fa un gesto che vuol dire “buono”, per indicare che quello che fa lo è davvero. Ecco i disegni degli adulti sono tutti “su chi sono loro”, sul fatto che sono essere umani a cui è stato tolto tutto. Perciò vogliono dirci chi sono, e sorpattutto chi erano prima.

E i bambini?
Ho visto bimbi smettere di saltare alla corda e accovacciarsi per terra per spiegarmi a disegni com’è fatto un talebano o un terrorista dell’Isis. E poi fare a gara per disegnare il gommone più bello. “Ma tu lo sai com’è fatta una barca che porta in Europa?”, mi hanno chiesto un giorno. “Quando finisce il mare?”, “Lo sai che gommone abbiamo preso?”. Nello zaino avevo un pacco di pennarelli, ma di colori ne hanno usati pochi. So solo che quando hanno dovuto disegnare la loro storia, quasi tutti i protagonisti di questo libro hanno scelto il pennarello colore blu del mare o rosso del sangue che hanno visto scorrere. Mi hanno colpito tantissimo due bambine yazide, Mleka e Rava, di 11 anni. Sanno come si taglia una testa ma non sanno perché alcuni musulmani perseguitano i bimbi come loro. Anche Mleka e Rava hanno pianto quando sono venuti a bussare alle loro case per ucciderle. Ma ora lo raccontano a gambe incrociate sedute sull’asfalto del campo di Petra all’ombra del monte Olimpo.

È come se ci fossimo dimenticati della Grecia. “La Grecia nasconde 75mila migranti”
Sì. In tutta la Grecia, e soprattutto nei campi profughi delle isole, la situazione è catastrofica. Nel libro cito un report di medici senza frontiere dove i campi sono descritti addirittura come i nuovi manicomi. I bambini sono autolesionisti e provano ad uccidersi. La capienza delle strutture è in media di 800 persone, eppure il numero di quelli che ci vivono è di tre volte superiore. I campi poi vengono nascosti, allestiti lontano, in mezzo al nulla.

Martina Castigliani, giornalista del “Fatto Quotidiano” online. Ha scritto anche per “Libération”. Nel 2018 ha vinto i premi Franco Giustolisi e Tania Passa per un’in- chiesta sulle ragazze che scappano dalle nozze forzate in Italia, pubblicata sul mensile “FQ MillenniuM”.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA