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Cesare Moreno

«A Napoli i soli presidi militari non servono a niente»

di Anna Spena

Piazza Nazionale, Noemi 4 anni e un proiettile che le attraversa i polmoni. Il presidente dell'associazioni Maestri di Strada «La criminalità in città è ancorata al tessuto sociale come nessun altra organizzazione. Non serve più polizia, ma più educazione. Noi lavoriamo con ragazzi di 8 anni che tra 10 anni saranno maggiorenni. E se questi non fanno oggi una buona esperienza educativa, con molta probabilità diventeranno i killer di domani. E poi ripetiamolo chiaro ai nostri giovani, quella dei criminali è una vita di merda»

Venerdì 3 maggio. Napoli, Piazza Nazionale. Noemi 4 anni e un proiettile che le attraversa i polmoni. I medici dell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli dicono che la sua è una “ferita da guerra”. De Magistris, il sindaco della città dice “siamo sconvolti”. Ma da cosa? Le stese a Napoli, dal centro storico alla periferia sono all’ordine del giorno. Partecipata la manifestazione “DisarmiAmo Napoli”, l’iniziativa promossa dall’associazione Un popolo in cammino. Nelle immagini delle telecamere si vede il killer che scavalca il corpo di Noemi scappando dopo aver colpito la vittima designata dell'agguato.

«Sparare in pieno giorno», ripete – quasi a se stesso – Cesare Moreno, presidente dell’associazione Maestri di Strada. «Gli omicidi ormai avvengono a 300 metri dall’esercito. I presidi militari sono importanti perché danno un segnale di visibilità, hanno una funzione psicologica per la popolazione. Ma i criminali se vogliono agire, agiscono».

I presidi militari non bastano. Quali azioni bisogna mettere in campo?
Da un punto di vista tecnico, a Napoli c’è bisogno di più lavoro investigativo. Certi luoghi chiave della criminalità e dell’illegalità diffusa andrebbero controllati tutti i giorni. Un’azione sicuramente meno appariscente ma più efficace. Bisogna “stargli addosso”. Quando si sta preparando un omicidio a Napoli lo sanno tutti, le voci corrono. Sono solo i giornalisti e l’opinione pubblica che arriva in ritardo. E poi ci vuole una presenza civile forte, costante. Associazioni che si dedichino a creare un legame sincero.

Alla manifestazione “DisarmiAmo Napoli ha fatto notizia la partecipazione di Antonio Piccirillo, figlio di un boss di camorra che in piazza ha detto “amo mio padre, ma non o stimo. Invito tutti i figli di camorra a dissociarsi da questa cultura che non paga, è priva di etica e valori. La camorra è sempre stata ignobile”
Non è la prima volta che persone che sono nate in un mondo criminale si schierano dall’altra parte. C’è un esercito di persone, di vittime innocenti. Le cose non funzionano come le vogliono raccontare. Chi ha un criminale in casa sa che quella del criminale è una vita profondamente infelice, sofferente. Il criminale sta nascosto. Deve temere sempre per la sua famiglia e vivere blindato in casa. La realtà quotidiana è davvero questa: una vita di merda, e i loro figli si portano in classe il disagio di vivere. Io non mi meraviglio che il figlio di un camorrista si sia dissociato. I cattivi esempi insegnano anche quello che non bisogna fare. “Voglio bene a te, papà. Ma non posso voler bene a quello che fai”. Anche il compito dei mezzi di comunicazione deve essere quello di dimostrare che la vita criminale fa schifo. E che nessun criminale si gode i soldi che fa.

Qual è il ruolo dell’educazione?
Ecco la criminalità a Napoli è ancorata al tessuto sociale come nessun altra organizzazione, polizia, carabinieri, magistratura, stanno sempre lì ad arrestarli ma ne vengono sempre fuori di nuovi. E questo la rende più sanguinaria, meno controllata. 400 anni di miseria fanno un bel danno. E il ruolo dell’educazione lo puoi vedere solo a lunga distanza. Noi lavoriamo con ragazzi di 8 anni che tra 10 anni saranno maggiorenni. E se questi non fanno oggi una buona esperienza educativa, con molta probabilità diventeranno i killer di domani. Guardiamo soprattutto al lavoro nelle scuole di periferia. San Giovanni, Ponticelli, Barra… I ragazzi con cui spesso ci confrontiamo sono figli di criminali, persone che vivono in povertà estrema. Il nostro compito è aiutarli.

Come?
La prima cosa di cui la scuola ha bisogno sono insegnanti che sappiano lavorare con bambini e adolescenti che vivono con gravi livelli di sofferenza, livelli estremi. Ma la scuola di oggi non è attrezzata a fare questo. In una scuola del rione villa, dove è stata ammazzato un nonno davanti al nipote, i miei educatori mi hanno chiesto “cosa diciamo agli insegnanti, alle mamme, ai bimbi?”. Ecco io non so cosa dire ma so cosa significa stare vicino a chi soffre, sentire la loro sofferenza. Questa è una zona di guerra. Non bisogna negare l’assurdo che è nel mondo. Non giriamo la faccia. Il problema è a livello generale, nelle scuole, soprattutto in quelle di periferia sono stati versati fiumi di euro per cose materiali. Il laboratorio di informatica, di musica… ma quanti di questi fondi sono stati destinati alla formazione di insegnati e dirigenti scolastici che devono affrontare ogni giorno di lavorare in una zona di guerra? La metà degli insegnati delle scuole di periferia del napoletano sono fuori gioco. Sono disperati, e come fa un disperato ed esausto ad aiutare un ragazzo? È inutile parlare solo di polizia, presidio militare e simili. Se il punto fondamentale sono le persone allora aiutiamo le persone. Prendiamo i quartieri e le scuole difficili e creiamo connessioni. “Professò”, dicono a volte i ragazzi, “ma comm’è che tre di loro tengono sotto il potere 100 famiglie”. Perché non c’è solidarietà, occasione di incontro. Più si è soli e disperati e più la solitudine e la disperazione crescono. Questo per dire che le soluzioni militari sono importanti, ma quelle umane servono di più.


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