Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Don Alberto Torriani

«Oggi, in questa emergenza, per coltivare la speranza dobbiamo essere come gufi»

di Lorenzo Maria Alvaro

Per il rettore del Collegio San Carlo di Milano, in questa epoca di Coronavirus, bisogna «avere occhi grandi per riscoprire una parte di Milano che ci eravamo dimenticati, perché non è abituata ad urlare. Tanti uomini di buona volontà che stanno lavorando perché i legami non vengano persi o consumati da questa situazione. Questo deve essere un compito che ci accomuna tutti»

Il Collegio San Carlo di Milano è la scuola arcivescovile più importante della città. Un'istituzione fondata nel 1869 e che accompagna il capoluogo meneghino da 150 anni. «È viva espressione della cura e dell’attenzione che la Chiesa Ambrosiana ha da sempre riservato alle giovani generazioni», sottolinea il rettore, Don Alberto Torriani, «il compito che ci sentiamo affidato è quello di formare ed educare i nostri alunni e le nostre alunne alla libertà, di rendere i nostri ragazzi e le nostre ragazze capaci di desideri, di scoprire e destinare al servizio del bene comune i loro talenti, di accogliere le diversità culturali, religiose, intellettuali e sociali come una ricchezza». Un compito che il coronavirus ha reso solo più arduo e complesso ma non ha interrotto.


Come avete affrontato l'emergenza?
Come tutti la criticità principale è stata data dall'esserci trovati in questa situazione dall'oggi al domani. Ci siamo dovuti organizzare sia dal punto di vista tecnologico che gestionale molto velocemente. In tre giorni abbiamo dotato di una piattaforma univoca gestita dall'istituto insegnanti e famiglie. Uno strumento che ci permette di portare avanti l'attività didattica. La piattaforma è poi affiancata al registro elettronico e oggi mette in rete i nostri 250 docenti con 1950 studenti.

Vi siete autorganizzati o c'è stata un'assistenza esterna?
Ci sono a livello pubblico dei protocolli ma non erano di grande aiuto. Abbiamo dovuto autorganizzarci come tutte le scuole italiane. Abbiamo messo in campo anche dell'autoformazione a distanza con alcuni docenti che hanno registrato tutorial per aiutare tutti gli altri insegnanti ad imparare in breve tempo ad usare i nuovi strumenti. In più abbiamo circa 70 professori che non sono italiani e per cui abbiamo dovuto anche tradurre tutte le indicazioni. Come sostegno esterno abbiamo avuto aiuto dal nostro gemello di Monza che usa la stessa tecnologia. Ci siamo scambiati test e best practice.

Quindi si può dire che la scuola va avanti…
No, questa non è scuola. Le aule non sono sostituibili dai computer. Per noi la scuola è altro. Questa è una modalità di vicinanza, di accompagnamento, di ascolto, anche di didattica. Ma non è scuola, è emergenza. Speriamo di poter tornare alle classi al più presto.

Come Collegio però non vi siete limitati a occuparvi solo dei problemi interni ma anche di aiutare la città…
Sì, abbiamo anche messo in campo alcune azioni per aiutare l'emergenza sanitaria. Un'idea che, devo dire, è venuta dai ragazzi del liceo. Mi hanno scritto chiedendomi di fare qualcosa per gli ospedali. Così è nata una raccolta fondi su GoFundMe. Ci siamo affidati a un nostro ex alunno, il prof. Chiumello, oggi primario dell'anestesia e rianimazione dei presidi Ospedalieri della ASST SS Carlo e dell'ospedale San Paolo, che ci ha messo in contatto con un'azienda che produce respiratori. Abbiamo raccolto in meno di una settimana circa 20mila euro. Faremo noi direttamente gli acquisti e li doneremo all'ospedale. In più, colpiti dai racconti del prof. che ci spiegava lo strazio dell'impossibilità di comunicazione tra i pazienti e i propri parenti, abbiamo deciso di donare 10 Ipad agli ospedali San Giuseppe e San Paolo per permettere videochiamate ai degenti.

Il Collegio San Carlo è l'istituto arcivescovile per eccellenza che a Milano ha una storia di 150 anni. Qual è il messaggio che da educatori, al netto della didattica, comunicate ai giovani?
Rispondo innanzitutto da sacerdote, che vive una situazione sicuramente più protetta di tanti confratelli. La prima attività che sottolineiamo è la preghiera. Che è quello che ha chiesto il Papa e anche il nostro arcivescovo Mons. Delpini, con un gesto insieme semplicissimo e potente come salire sul Duomo e rivolgersi alla Madonnina. In questi giorni c'è bisogno di preghiera. Le famiglie sanno che tutte le sere alle 18 celebro qui in Collegio la messa e poi recito il rosario percorrendo idealmente tutte le classi. C'è poi un altro tema molto importante che oggi sembra molto difficile, che è il coltivare la speranza. Un'amica qualche giorno fa mi ha girato una frase di Vaclav Havel che recita: «La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire». Il senso è importante, anche nella malattia e nella morte.


Come si può avere speranza quando intorno, per citarla, ci sono solo malattia e morte?
Essendo come gufi. Il gufo è l’animale dagli occhi grandi, capaci anche di vedere nella notte. La notte è il tempo nel quale non si vede, si è incapaci di prendere una direzione e il cammino si fa insidioso. La notte è un momento inquietante, nel quale ci è nascosto l'essenziale, magari quello che più ci serve per vivere e spesso nella letteratura esprime lo smarrimento dello spirito, l'impossibilità di cogliere ciò che deve orientare i nostri passi perché paure, superficialità e timori sembrano essere padroni della vita. Il gufo è capace di attraversare questa notte perché capace di vedere segni e di svegliare aurore. E sono tante questi segni e aurore, questi gesti di vita. Penso ad esempio ad una cosa successa oggi. Abbiamo lanciato un concorso di poesia, che si chiama Decameron, in cui tutti i ragazzi possono partecipare. È arrivata una composizione bellissima di un nostro ragazzo down. Quando l'abbiamo letta abbiamo pensato che allora c'è speranza. Questo è lo sforzo che dobbiamo fare oggi: la vicinanza.

Può condividere il testo?
Certo, come dicevo l'ha scritta un ragazzo di terza liceo con sindrome di down. Recita così: «Una notte fonda con stelle cadenti e il cielo luminoso. Una luce accesa, gli alberi portano in giro l'erba nuova. Gli uccelli cantano un inno magico, verso l'alba. È il Dio della conoscenza. È il Dio della musica. È il Dio della Bellezza, della Mia Amata!». La trovo bellissima.

Lei parlava di vicinanza. Viviamo però il controsenso per cui si deve fare comunità stando separati. La stessa frase di Havel che lei cita in molti l'hanno usata per criticare il motto #andràtuttobene e i canti dalle finestre. Che ne pensa?
Dobbiamo sempre essere in ascolto del cuore e della testa dell'uomo. Se l'ottimismo è una possibilità per far nascere la speranza perché no. Vanno bene i balconi, vanno bene gli applausi e i canti. Ognuno ha i suoi linguaggi. Cerchiamo di raccogliere là dove l'uomo è adesso. Il tema della comunità è importante. Mi viene in mente a tal proposito il Santo Sepolcro dove accompagno tanti studenti. Il fondamento della comunità per i cattolici è un uomo morto e isolato da tutto. So di ragazzi che si ritrovano su piattaforme a condividere il Vangelo o un aperitivo. Questo è comunità. Si sta riscoprendo incredibilmente un desiderio di relazione e di comunità stupendo. Il nostro lavoro di domani sarà educarlo.

Anche il ruolo della tecnologia e dei social network è cambiato molto in questa emergenza…
Ieri sera parlavo con un gruppo di studenti e qualcuno mi diceva che faceva fatica con i genitori. E si è finiti a parlare della prossimità. Il prossimo non è solo il vicino, il parente. Oggi la prossimità si può esprimere anche con queste tecnologie. E forse per la prima volta è usata per prendersi cura. È una cosa bellissima

In queste settimane c'è stata una forte autocritica rispetto al modello di città che Milano in questi anni ha deciso di essere. Una città fragile perché esclusiva, nel senso di escludente. Cosa ci può insegnare questa situazione?
Ci sarà una stagione in cui andrà fatta una riflessione su come stiamo costruendo le relazioni, di cui è fatta la città. Io non rinuncio ad educare i miei studenti alla solidarietà e al volontariato anche in una Milano che corre in un'altra direzione. C'è poi una città fuori dai luccichii del centro che sta dimostrando una forza e una vitalità enorme. Con esperienze di vicinanza e ascolto commoventi. Io non credo che ci siamo scoperti totalmente sguarniti. Piuttosto abbiamo riscoperto una parte di questa città che ci eravamo dimenticati, perché non è abituata ad urlare. Tanti uomini di buona volontà che stanno lavorando perché i legami non vengano persi o consumati da questa situazione. Questo deve essere un compito di tutti.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA