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Elio De Capitani

«L’arte ci insegna a metterci nei panni degli altri»

di Anna Spena

«Quali domande ci ha posto l’epidemia come artisti e come persone? Quali risposte abbiamo dato?», dice l’attore e regista Elio De Capitani. «L’Elfo, il mio teatro, che tra tre anni compie mezzo secolo di vita ha un segreto: fonda l’arte sull’empatia perché il fare l’attore, in fondo, non è altro che mettersi nei panni degli altri»

Quella con Elio De Capitani, attore e regista, più che un’intervista assomiglia a un viaggio dentro l’empatia – che solo questa ci può salvare – e nelle vite degli altri. Un viaggio nella libertà, che non è mai una cosa solo nostra. E se è solo nostra non ha senso, insomma non è "libera". Ascoltatelo stasera in diretta streaming sul sito dell’Università Iulm in un dialogo “Il Virus e la forza dell’arte” con Gianni Canova, rettore dell’università. Capitani, direttore artistico, insieme a Ferdinando Bruni, del Teatro dell’Elfo di Milano, fondato nel 1973 da Gabriele Salvatores, il primo teatro in Italia a scegliere la formula dell’impresa sociale, lo dice senza retorica: «se sai metterti nei panni degli altri cominci a capire tante cose del mondo, ma se ti metti solo nei tuoi, che vita è? Cosa impari?».

Sono stato in casa per tutelare la salute dell’altro, indosso la mascherina per l’altro. Chi non la indossa non prova empatia

Elio De Capitani

Che cos’è la forza dell’arte? E come in un momento così drammatico come quello che stiamo vivendo si concretizza?
L’arte ha la capacità di non vivere solo il presente. Ma ci fa abitare e vivere le storie del passato, anche quelle di secoli e secoli fa, che l’umanità ha attraversato e di cui ha memoria biologica attraverso il teatro e tutte le altre forme d’arte. La sua forza sta proprio lì. Noi come essere umani abbiamo questo immenso patrimonio di esperienze, memorie, cultura che potremmo chiamare un’altra bibbia. Questa altra bibbia è un lascito immenso, per noi artisti si tratta di altre sacre scritture, può sembrare un po’ blasfemo, ma è il modo di vivere l'arte. Mi trovo a contatto con l’anima delle persone, anche se sono sconosciute. Sento la forza dell’umanità attraverso le esperienze. Esperienze che sono un patrimonio per noi e non riflettere attraverso di loro sarebbe come far venire meno quella forza. Questa forza si concretizza anche nella spinta di continuare a produrre arte. Quando vado ad un concerto, a teatro, quando guardo uno spettacolo di danza – parlo in particolare di arte dal vivo – il mio cervello funziona su due livelli: uno che vede e assorbe quello che accade, il livello emotivo, e poi un’altra parte del cervello entra in contatto con qualcosa di profondo che esiste in me e continuamente mi fa ricapitolare su me stesso. L’arte è uno strumento di consapevolezza, coscienza, autoanalisi, riflessione. Un fenomeno bellissimo. Lo vedo da spettatore e come artista e so che chi sta seduto in platea percepisce la stessa cosa. É questa la forza dell’arte. Mi piacerebbe riuscire a spiegare lo speciale legame col tempo, coi secoli, col passato e col futuro, che vive chi fa teatro e che molto aiuta a collocare nella storia dell’umanità questa particolare pandemia nella sua drammaticità che ha colpito la nostra regione (Lombardia ndr) con particolare durezza.

L’empatia non è una precondizione. Insegnarla è una fatica, ma dobbiamo farlo

Elio De Capitani

Tra tre anni il Teatro dell’Elfo compie mezzo secolo di vita. Ha scritto “vorrei spiegare il segreto ben noto del nostro successo così duraturo: fondare l’arte nostra sull’empatia perché il fare l’attore, in fondo, non è altro che mettersi nei panni degli altri affinché anche gli spettatori imparino a farlo”
Il nostro teatro l’ha sempre saputo: l’empatia è una forza grandissima. Imparare a provare i sentimenti dell’altro, fare esperienza della vita di un altro. Lo facciamo noi attori ma allo stesso tempo anche il pubblico che ci guarda. Ed è questo l’elemento fondamentale che ci rende animali sociali. Assistiamo e proviamo empatia anche per chi è diverso da noi. Comprendiamo che esiste un noi che supera l’io. Anche per questo è importante la fruizione collettiva: respirare insieme un luogo e vivere, sempre insieme, quel tempo dedicato noi. La fruizione collettiva di uno spettacolo dal vivo è un viaggio reale. L’artista incarna e trasforma le parole nel suo corpo, e quel corpo diventa esperienza di vita e ti permette di superare il tempo, lo spazio. Solo così si può costruire un’identità in relazione con l’altro e quindi non autoreferenziale.

Ma non lo capiamo abbastanza…
La società non capisce che straordinaria funzione svolga l’arte. Nel nostro Paese si parla spesso di cultura ma non si riesce a comprendere che la cultura, lo spettacolo, non sono forme di intrattenimento. Produrre arte è un compito della società. Noi perché ci ricordiamo le società passate? Per i libri contabili? Certo che l’aspetto economico vale, ma noi sappiamo dell’esistenza delle società che ci hanno preceduto per la produzione artistica. L’arte è un compito. Un modo in cui umanità esprime se stessa. Io per esempio rimango incantato davanti alla pitture rupestri. Sono pittori anonimi e tra i più straordinari inventori che siano mai esistiti nella storia.

Il dialogo con Canova inizia dal teatro. Il teatro per ripartire, dopo la crisi, dalla forza dell’Arte. Che hanno significato questi mesi di lockdown?
Il periodo del confinamento sociale, la chiusura che colpiva al cuore l’essenza stessa del teatro, la sua possibilità di convocare l’assemblea dei cittadini, perché tali consideriamo prima di tutto i nostri spettatori…Ecco chiuderci in casa io non l’ho vista come una limitazione della mia libertà. Ma un altro modo di mettermi nei panni dell’altro. Sono stato in casa per tutelare la salute dell’altro, indosso la mascherina per l’altro. Chi non la indossa non prova empatia per gli altri. Il senso della libertà è l’altro. Se tu non sai garantire la salute dell’altro ad esempio, che libertà è la tua? Quella da suprematista bianco con il fucile? Ho vissuto il lockdown come un momento in cui il nostro pubblico ha sentito una grande mancanza. Così abbiamo deciso di non mandare in onda una sostituzione del teatro ma dei dialoghi. Tre alla settimana, divisi per temi. Con l’Elfo abbiamo davvero creato una comunità di persone. Andare a teatro è un atto civile.

Che significa oggi essere un teatro di comunità?
Che la tua libertà te la può garantire solo il pubblico che ti sceglie e ti lascia libero di rischiare. E la libertà è reciproca. Il teatro commerciale non è libero. Vive interrogandosi sui gusti del pubblico, dando “zucchero alla scimmia”, anche se quello zucchero gli fa male ai denti. Invece il nostro pubblico è consapevole che corriamo dei rischi, facciamo scelte ardite, ma è disposto a seguirci, a spingerci verso la libertà.

L’arte è un compito. Un modo in cui l'umanità esprime se stessa

Elio De Capitani

Se l’arte insegna l’empatia allora deve entrare nelle scuole
Non può più avere una funzione ancillare ai programmi. La sua forza non sta solo nei temi, ma anche nel linguaggio. É allenamento l'arte, educazione all’empatia.

Voi siete un’impresa sociale. Come si coniuga l’essere impresa, e quindi dover anche badare ai conti, e fare teatro?
Abbiamo 47 anni di vita e siamo in 40 a lavorare. A questo numero si aggiungono 20 maschere, 50 attori… insomma prima del lockdown arrivavamo anche a 120 persone. Fare teatro è un lavoro, fare arte è un lavoro. Bisogna stringere un patto: educare e lavorare. Una sorta di “genitorialità sociale”. Nel 2011 abbiamo vinto il premio Ubo con The history boys. Abbiamo vinto come Miglior Spettacolo dell'anno, miglior Attrice non protagonista, Ida Marinelli, e nuovo attore under 30. I ragazzi di The history boys sono Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angelo Di Genio, Loris Fabiani, Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone e Vincenzo Zampa. Ancora mi commuovo se penso a quel premio. Quando abbiamo iniziato volevamo “allevare le generazione future”. Quando questi otto ragazzi hanno vinto, abbiamo vinto anche noi, uno dei nostro obiettivi era stato raggiunto: tramandare il sapere. Noi abbiamo una missione: lasciare qualcosa nei secoli. Ci dobbiamo spingere verso il futuro. Per questo come teatro puntiamo tantissimo anche sugli autori contemporanei italiani.

Torniamo all’empatia. Cosa facciamo con chi non ce l’ha?
Bisogna essere realistici sulle proprie sconfitte. Devo ammettere che questa epoca ha creato delle personalità inscalfibili, autoreferenziali, che navigano in rete per vedere ciò che le conferma nei loro pregiudizi. Persino io che sono un ottimista convinto della forza contaminatrice dell’empatia in alcuni casi ho dovuto ammettere che ero davanti a una monade che si relazionava solo a se stessa e con cose identiche che le confermavano com’era fatta. Persone exenofobe. Che hanno fobia di tutto ciò che è estraneo da loro. Tutto quello che è estraneo non lo fanno entrare, tutto quello che è estraneo è un virus. C’è una paura grande, generale, trascinata dietro da questi anni di neo liberismo. Abbiamo perso di vista i valori sociali. Ma anche in quest’ottica ricordiamoci che l’empatia è un compito, non una precondizione. Insegnarla è una fatica, ma dobbiamo farlo. E l’arte ha questa forza: può insegnare l’empatia.

Foto di apertura Lukas Hemleb


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