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Roberto Saviano

«Cominciamo a gridare con la testa, non con la pancia»

di Redazione

Il suo ultimo libro “GRIDALO”, (edizioni Bompiani, euro 18) è un invito a gridare per scoprire di non essere soli. «E oggi che siamo fisicamente isolati, non sentirsi soli credo sia importante. È una mia necessità fortissima. Lo è da quando vivo sotto scorta». Ma non si tratta di diventare populisti: «volevo che il grido smettesse di essere solo quello che sovrasta le altre voci, che non tiene conto di chi non ha voce, e volevo che il grido fosse quello di chi non grida mai perché teme che non ci sia nessuno ad ascoltarlo»

Roberto Saviano è un nome che divide. Lo si ama o lo si guarda con circospezione. Diventare famoso a 26 anni, con un clamore degno dei più grandi, e nello stesso tempo diventare invisibile per la scorta che lo accompagna da 15 anni (per le minacce di morte da parte del clan dei casalesi) non è cosa comune. Personaggio controverso discusso, efficace, scomodo, al netto di quello che si dice di lui, forse vale la pena ascoltarlo. E quando lo si incontra, è difficile non restare colpiti dai suoi modi: gentili, flessuosi, rispettosi e umili. E quando si legge il suo ultimo libro “GRIDALO”, (edizioni Bompiani, euro 18) si capisce, forse, qual è il segreto di tanta capacità affabulatoria. Un grido forte e chiaro, diretto a chiunque voglia ascoltarlo. Unica richiesta, dotarsi di pazienza per i tempi lunghi, perché la narrazione del presente ha bisogno di sedimentare attraverso le storie di oggi e con quelle di ieri, che spesso sono state taciute, non conosciute o rinnegate. Storie caratterizzate da un filo rosso che invita a decifrare la realtà attraverso l’arma della complessità. Cosa non comune in questi tempi in cui lo slogan come cifra stilistica, ha preso il sopravvento.


Gomorra è stato il libro che con il suo successo planetario le ha cambiato la vita in tutti i sensi. Lo riscriverebbe?
Quando guardo la mia vita e penso a cosa è accaduto dopo Gomorra, un po' mi pento, credo sia umano. Non so se lo riscriverei… per molti anni ho pensato di no. Oggi la penso diversamente, lo riscriverei senz'altro, ma proverei ad avere maggiore prudenza. A espormi meno, perché con me la mia famiglia e tutte le persone che amo stanno pagando un prezzo altissimo.

Gridalo. Qual è l’idea da cui è scaturito il libro e perché questo titolo?
Volevo sottrarre il grido al populismo, volevo che il grido smettesse di essere solo quello che sovrasta le altre voci, che non tiene conto di chi non ha voce, e volevo che il grido fosse quello di chi non grida mai perché teme che non ci sia nessuno ad ascoltarlo. Il mio è un invito a gridare per scoprire di non essere soli. E oggi che siamo fisicamente isolati, non sentirsi soli credo sia importante. È una mia necessità fortissima… lo è da quando vivo sotto scorta.

Che differenza c’è tra il grido di cui parla e, per esempio, l’urlo degli slogan dei populisti?
Il mio grido non scaturisce da un moto di rabbia, non è un grido di pancia, ma è un grido che non può essere taciuto nemmeno dopo averci a lungo ragionato, dopo aver riflettuto sulla possibilità di trovare altre strade che non fossero il grido. Il mio grido non è un grido di pancia… Qualcuno dice che i populisti vincono perché parlano alla pancia e una pancia ce l'hanno tutti… non sono d'accordo, anche la testa ce l'hanno tutti.

Il suo è un grido di testa?
Sì, un grido che invito a condividere, un grido che spesso si leva per difendere diritti degli altri e non solo i propri. Sì, perché gli slogan populisti hanno una caratteristica in comune, sono slogan egoistici. "Io non ho", "a me manca", "non mi hanno dato", "io pretendo". Io, io, io, io… Ma essere parte di una comunità significa anche dare per poi avere. Significa mettere in condivisione e poi fare in modo che le cose girino bene per tutti. Ecco, il mio grido è un grido di comunità, è gridare insieme, non sbraitare, non puntare il dito, non cercare un capro espiatorio.

A chi si rivolge con il suo libro?
A chiunque abbia voglia di leggere storie sotto una luce diversa. A chiunque abbia anche voglia di mettere in discussione ciò che crede sia accaduto. Racconto di un Zola morto (o forse assassinato) in solitudine e povertà. Di un Martin Luther King ricoperto di sterco, minato negli affetti più intimi. Racconto di una emigrazione avvenuta un secolo fa, di una emorragia che ha dissanguato l'Italia e che ha gli stessi contorni dei flussi di oggi. Prima eravamo vittime ora siamo spesso carnefici.
Qual è il criterio con cui ha scelto le storie che racconta? Qual è il filo rosso che le lega? E quanto c’è di Roberto Saviano?
Sono tutte storie in cui un singolo individuo ha pagato personalmente un prezzo altissimo per aver deciso di non seguire il flusso, per aver provato a cambiare le cose. E poi ci sono storie che ho avvertito come necessarie perché svelano i meccanismi che stanno alla base dell'esercizio del potere. Racconto chi ha provato a cambiare il mondo e gli oppressori che con il loro potere hanno provato a bloccare ogni cambiamento, sono due facce della stessa medaglia. Ho deciso di chiamare queste storie Gridalo perché mi sembrava che protagonista fosse sempre un grido talvolta bestiale (perché colto, come diceva Marco Pannella, nel suo acuto), talvolta inespresso. Questo libro mi rappresenta moltissimo, lo sento in profonda continuità con le ultime parole di Gomorra: "Maledetti bastardi, sono ancora vivo!".

Ha mai represso un grido che invece sarebbe stato liberatorio?
Ho provato a non farlo mai. Ho provato a gridare sempre quelle che ritenevo essere le mie ragioni e le ragioni di chi non ha la possibilità di esprimersi. Credo, alla base di tutti i miei problemi, ci sia questo mio aver costantemente gridato.

Scrivere un libro, come lei ha detto, è un rapporto intimo, non passivo. È e può essere un atto rivoluzionario?
Assolutamente sì. Direi quasi che lo è nella maggior parte dei casi. Io ho una fiducia cieca nella possibilità che le parole hanno di cambiare il corso delle cose.

Nel suo libro parla anche di Dante. Vi accomuna l’allontanamento dal proprio paese, dalla propria città?
Ovviamente come faccio a paragonarmi a Dante? Questa mia pretesa susciterebbe comprensibile ilarità, ma in realtà, se ci pensiamo bene, è proprio quel che accade a ciascuno di noi quando leggiamo un libro: ci immedesimiamo, cerchiamo punti di congiunzione, rette che a un certo punto si intersecano. Utilizziamo le esperienze che leggiamo per interpretare ciò che viviamo, per darci delle spiegazioni, per capire meglio. E certamente anche io, con le ovvie differenze, ho vissuto una separazione dalla mia città che mi ha procurato grande sofferenza. Soprattutto per come la mia città ha reagito, di fatto accettando il mio allontanamento senza battere ciglio. Come se fosse normale, inevitabile, quasi una liberazione.

Che rapporto ha con la sua città d’origine?
Un rapporto viscerale e di profonda e dolorosa nostalgia.

È sotto scorta dal 2006. Quali sono stati i momenti più duri dovuti a questa condizione?
La vita sotto scorta, quando tutto accade all'improvviso, come è accaduto a me, può essere una vera tragedia. I momenti più duri li ho vissuti sicuramente all'inizio, quando mi sono sentito del tutto abbandonato da chi faceva parte della mia vita prima che ricevessi minacce e protezione. Quel "chi te lo ha fatto fare" che mi arrivava da ogni parte ha creato una ferita che negli anni non si è rimarginata. Sono stato molto male dopo Vieni via con me: la grande visibilità mi ha reso bersaglio. Mi hanno ferito le parole di Marina Berlusconi perché facevo parte della famiglia Mondadori che mi era stata vicina in momenti molto difficili. Perché ho sempre creduto nella sacralità delle opinioni altrui e additarmi con disprezzo in quel momento ha significato buttarmi addosso un'orda di cani inferociti. Mi sono trasferito negli Stati Uniti perché gli ultimi anni di Berlusconi, che oggi abbiamo rimosso, per chi osava criticarlo sono stati un vero inferno.

In un dialogo con Luciana Littizzetto, ha detto che spesso lo rappresentano come una persona triste e che non le corrisponde. Visto che usa le parole in modo ermeneutico, quali parole userebbe per definirsi?
Queste parole di Terenzio: "Homo sum, humani nihil a me alienum puto".

La sua figura è sempre stata oggetto di sentimenti contrastanti. Osannata o criticata. Come ha affrontato queste oscillazioni nel definirlo?
Come le ho affrontate? All'inizio male, perché ho sempre ritenuto di essere in buona fede e di non star lì a difendere diritti miei o della mia parte, non essendoci, tra le altre cose, una parte nella quale io mi senta a mio agio, né tanto meno che voglia accogliermi per quello che sono. Poi ho capito che così vanno le cose, che proveranno sempre ad abbassare le tue battaglie dicendo che, come tutti, sei un piccolo uomo… È esattamente quello che ho provato a raccontare in Gridalo: prova a pretendere il rispetto di un diritto, non ti risponderanno nel merito, ma metteranno in piazza i tuoi vizi – veri o presunti – per dimostrare che sei uno come tanti, come tutti o addirittura peggio degli altri. Per farti abbassare la testa, per invitarti al silenzio.

La parola odio fa parte del suo vocabolario? Le appartiene questo sentimento?
Odio chi semina menzogne, odio chi diffama e boicotta ogni possibilità di cambiamento, odio chi mi odia ma ho ben compreso che l'odio è come bere un bicchiere di veleno: lo bevi tu pensando di avvelenare chi ti ha fatto del male e invece uccide solo te stesso.

Nel primo periodo della sua vita sotto scorta, ha più volte raccontato dei periodi di depressione o degli attacchi di panico. Le succede ancora?
La pressione a cui sono sottoposto è enorme quindi sì, mi muovo sempre in bilico su quella linea sottile che separa la tranquillità di una vita del tutto anomala, dalla depressione.

Cos'è la paura? Se l’ha avuta si è modificata nel corso del tempo?
La paura può essere un sentimento nobile perché nasce dall’attaccamento alla vita, dall’amore per la vita. Ho molto rispetto per chi prova paura. La mia paura è ormai da anni sempre la stessa, non ne ricordo un’altra: ho paura che la mia condizione possa non cambiare mai.

Cosa gli hanno tolto 15 anni di scorta? Ma, al contempo, cosa ha guadagnato?
Mi ha tolto tutto, direi che mi ha tolto la possibilità di progettare, di pensare a quello che farò domani, tra un anno, tra due. Di vedermi libero, autonomo nelle scelte e negli spostamenti. Finanche la capacità di vedermi nel futuro. Mi ha dato enorme visibilità che spero, e sottolineo spero, di stare usando anche per chiedere qualcosa per chi non ha voce.

Come vede il suo futuro? E più in generale quello del nostro Paese?
Il mio futuro faccio fatica a vederlo. Sono ormai anni che campo quasi alla giornata in questa schizofrenia di avere tutto organizzato al centimetro e al millesimo di secondo senza sapere cosa ne sarà di me tra una settimana o due. Dell'avere massima visibilità e poi massima reclusione. Il futuro dell'Italia lo vedo cupo. La pandemia porterà una crisi economica che già c'è ma abbiamo ancora la presunzione di non vederla, una crisi profondissima che acuirà le differenze sociali ed economiche all'interno dei nostri confini e tra l'Italia e i paesi che stanno agendo con maggiore responsabilità, decisione e lungimiranza. Le scuole rappresentano il nostro futuro, tenerle chiuse significa mettere un'ipoteca che saranno i giovani a dover pagare…

Se avesse il potere di fissare in un nome, in un episodio, questo turbolento 2020 chi e cosa sceglierebbe?
A marzo 2020 sono morti 13 detenuti nelle carceri italiane, intossicati da metadone. Per questa intossicazione esiste una cura, il Narcan, che però per loro non è stato usato. Il nome che fisserei non è uno ma sono i nomi dei 13 detenuti morti quando in Italia è iniziato il lockdown: Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan. Su di loro il governo non litiga, di ciò che è accaduto nelle carceri italiane a queste 13 persone, l’Europa non ci chiede conto.

E la parola sulla quale meditare per il 2021?
Scuola, perché dalla scuola parte tutto. La scuola è il nostro presente… la scuola è il nostro futuro.


Credit foto: Maki Galimberti


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