Alessio Musio

“Chi è mia madre?” Capire il nostro tempo attraverso la maternità surrogata

di Marco Dotti

L'uomo, scriveva Walter Benjamin, è entrato nella fase della sua riproducibilità tecnica. Con quali conseguenze antropologiche, etiche e sociali? Ne parliamo con l'autore di Baby boom, da poco apparso per Vita e Pensiero: una critica filosofica al grande tema della surrogacy

«Che cosa c’è di autentico in questo mondo? Ci hanno abituato ai surrogati». Così scriveva Antonio Gramsci e le sue parole, riportate in esergo in Baby Boom. Critica della maternità surrogata, ultimo, importante lavoro di Alessio Musio per i tipi di Vita e Pensiero, suonano quanto mai attuali.

Professore ordinario di filosofia morale all’Università Cattolica, Musio ricompone attraverso un taglio al contempo antropologico e fenomenologico un puzzle, quello della maternità surrogata, composto di tanti frammenti – sociali, bioetici, commerciali, etc. – quasi sempre affrontati “settorialmente”. Un’analisi genealogica che parte dal linguaggio e da ciò che Michel Foucault definiva “l’ordine del discorso”: ciò che il linguaggio rivela è, spesso, ciò che il linguaggi cela. Un libro importante, dicevamo, perché pone sul tavolo una questione cruciale: che ne è dell’umano nel tempo della sua riproducibilità tecnica?

La pandemia ha fatto tornare d’attualità un tema che, dopo essere stato al centro delle cronache, era carsicamente finito sottotraccia: la maternità surrogata. Nella prima fase della pandemia, con la chiusura delle frontiere e il calo drastico della domanda, decine di neonati sono stati abbandonati al loro destino: l’immagine dell’hotel Venezia di Kiev, capitale della surrogacy è ancora nei nostri occhi…
Il lockdown, che ha comportato il blocco della produzione delle merci e della loro consegna, ha comportato anche lo stoccaggio della merce invenduta. Nel caso di Kiev non abbiamo visto altro che uno stock di merce invenduta. Di colpo è caduta tutta la retorica sull’altruismo e sul dono che, da sempre, inquina il dibattito sulla maternità surrogata.

Un inquinamento che, nel suo libro, lei affronta partendo anche dalla questione del nome…
Non è affatto secondario affrontare la questione del nome, ossia di come debba essere chiamato quel fenomeno che chiamiamo “maternità surrogata”. Deve esserci una capacità descrittiva, per capire adeguatamente il fenomeno, ma anche una capacità valutativa. È evidente che un’espressione come “gestazione per altri”, che è largamente usata in letteratura, di fatto viene a enfatizzare un aspetto altruistico e di dono che il lockdown ha potentemente tolto di mezzo.

“Gestazione per altri” è un’espressione che piace, proprio per la coloritura sentimentale che conferisce al fenomeno…
In realtà è un’espressione che, dietro quella patina, procede per una serie di occultamenti. Occulta, per esempio, il dato che si tratti comunque di una maternità. Nella parola “gestazione” scompare tutto ciò che la maternità comporta. Come se si cercasse di rarefare l’esperienza stessa, possibile, del materno che è comunque implicata dalla maternità surrogata. Dire “gestazione” significa, inoltre, non dire “parto”. La scelta della parola “gestazione” è in questo senso l’esito di una continua scomposizione. Studiando il tema mi sono accorto che la tecnologia agisce sulla maternità surrogata proprio così: scomponendo. Scomponendo e rarefacendo sempre più ciò che nell’esperienza carnale è, invece, presente e unito.

La logica della maternità surrogata è esattamente questo: istituzionalizzazione dell’oblio

Alessio Musio

Assistiamo, dunque, a una sorta di rarefazione esperienziale già a partire dal nome con cui indicare l’oggetto di cui parliamo…
Proprio per questo la questione del nome diventa decisiva. L’immagine dei bambini di Kiev ha tolto, con un solo tratto, il velo dell’ipocrisia: i contratti stipulati per la merce invenduta hanno una loro fattispecie, i contratti stipulati per la maternità surrogata pure e hanno fatto sì che un hotel dovesse diventare improvvisamente una sorta di nursery, con infermiere a occuparsi dei bambini in attesa della loro consegna ai committenti.

Bambini che le loro madri gestazionali avevano surrogato e consegnato…
In base al loro contratto, quel che dovevano fare dal punto di vista della “produzione” lo avevano portato a termine.

Il suo libro si apre con un prologo titolato “Chi è mia madre?”. Una domanda potente e spesso elusa…
Qui torniamo alla tecnologia che nel discorso sulla maternità surrogata tende a dare le carte. Ma tanto più aumenta la tecnologia, tanto più si scompone e si rarefà il dato carnale. Ciò che nella carne è unito – l’esperienza della maternità genetica, della maternità gestazionale e della maternità sociale – attraverso la tecnologia e la fecondazione in vitro nel suo connubio con la maternità surrogata si scinde. La conseguenza di questa scissione è che, di fatto, abbiamo tre donne diverse (la terza, quella sociale, può anche essere riconosciuta in termini giuridici a un uomo). Una scissione che rende impossibile, di fatto, rispondere alla domanda “chi è mia madre?”, perché lo sono tutte e tre.

L’unicità è tolta non solo al nascituro, ma anche alla madre…
Quando poniamo la domanda “chi è mia madre?” e capiamo che è difficile dare una risposta, siamo al tempo stesso spinti a interrogarci sugli effetti sul figlio di una domanda di questo tipo. Effetti che ci portano in una direzione di ricerca di tipo psicologico – ricerche che, nel frattempo, rispetto agli anni Ottanta, quando iniziarono a porsi interrogativi e problemi, ormai sono disponibili. A me ha interessato una risposta di tipo più filosofico: quello della maternità surrogata è un linguaggio di continue sostituzioni e di surroghe.

Un linguaggio che possiamo cogliere già nell’espressione “voglio un figlio”…
Riprendendo una bella immagine di Adriano Pessina, potremmo dire che il figlio è l’ospite dell’unità della coppia e non il suo fondamento. Non si “vuole un figlio”, ma si vuole generare insieme alla persona amata e solo con lei. La pratica della maternità surrogata, invece, passa attraverso continue sostituzioni; nel caso di una coppia eterosessuale si ha la sostituzione della partner quando non può o non vuole generare.

Qual è il significato filosofico, allora?
È il venir meno dell’unicità, cioè il venir meno della distinzione tra le persone e le cose. Ci hanno insegnato che le persone sono insostituibili, ma poi facciamo esattamente il contrario. La maternità surrogata è parte di un percorso che produce un’idea della sostituibilità. Sotto i nostri occhi sta avvenendo il venir meno dell’unicità e dell’irripetibilità come elementi dello statuto personale. Ma poi c’è un altro risvolto. Ne parlava già Günther Anders quando coniava l’idea di un’“ontologia economica ragionata”: ci sono cose che non introducono soltanto un nuovo modo di pensare, ma persino una diversa ontologia. Ontologia economica ragionata: la creazione di un nuovo statuto dell’essere a partire dalle tecnoscienze e dall’economia.

Ciò che nella carne è unito – l’esperienza della maternità genetica, della maternità gestazionale e della maternità sociale – attraverso la tecnologia e la fecondazione in vitro nel suo connubio con la maternità surrogata si scinde

Alessio Musio

Che cosa accade nel contesto di questa diversa ontologia?
La prima risposta è che viene meno il senso dell’insostituibilità personale: tanto le cose quanto le persone diventano fungibili. Romano Guardini rimarcava il fatto che noi parliamo il linguaggio della persona, ma non abbiamo mai capito che cosa significhi realmente questo termine. La parola “persona”, infatti, mette in gioco categorie di unicità e irripetibilità che fuoriescono da quasi tutte le nostre relazioni. La persona – diceva – è in grado di incontrare sé stessa e gli altri, invece che di imbattervisi soltanto, mentre noi abbiamo relazioni sociali in cui ci serviamo degli altri, lottiamo con loro e via discorrendo. Guardini insegnava invece che, proprio perché connesso all’unicità, il linguaggio della persona è talmente paradossale che persino l’idea di contare le persone è contro-intuitiva. La maternità surrogata fa piazza pulita di tutto questo. Ma c’è un altro rilievo sull’unicità, che non è soltanto ontologico, ma esperienziale. Anders diceva che l’ontologia economica determina l’emergere della logica della serialità. Questa logica è tale che – secondo un vecchio proverbio tedesco – “una volta è nessuna”. Il venir meno dell’unicità, così, è anche il venir meno dell’unicità degli eventi: quando la maternità diventa un lavoro (e un lavoro è fatto di una scansione e di una routine, con gesti che continuamente si ripetono), viene meno l’unicità di quell’esperienza radicale che è, e che dovrebbe restare, connessa al mettere al mondo l’unicità.

La maternità surrogata, quindi, non fa venir meno solo l’unicità personale, ma anche il senso dell’unicità esperienziale?
Quand’anche una donna avesse messo al mondo più figli, la perdita dell’unicità numerica del parto non è la perdita della sua unicità esperienziale, ciò che alcune autrici femministe chiamano ‘il miracolo’ del mettere al mondo l’unicità. Nella maternità surrogata è proprio questo miracolo a essere annichilito, perché gli eventi diventano seriali e si assiste a una scissione dell’esperienza. Questa scissione ha anche il senso della perdita dell’unicità dei momenti che sono diversi da tutti gli altri, che si staccano da ciò che costituisce le tante routine del nostro quotidiano lavorativo.

Una sociologa, Daniela Danna, fa vedere bene, però, un altro aspetto delle sostituzioni che la maternità surrogata implica. Immaginiamo che una donna faccia “di mestiere” la madre surrogata e abbia già dei figli suoi, cosa, tra l’altro, raccomandata in questo business…

… perché raccomandata?
Perché avendo già avuto dei figli si accerta che è in grado di portare a termine la maternità: l’impresa commerciale non è a rischio e, oltretutto, avendo già dei figli è probabile che non si affezionerà al bambino. Questo fenomeno, però, si può osservare anche da un altro punto di vista: quello del figlio già in vita che, assistendo a questa dinamica, vede – come acutamente rileva Danna – sparire suo fratello e si interroga sul fatto che lui stesso avrebbe potuto sparire ed essere sostituito.

Walter Benjamin scriveva che la nostra è un’epoca di shock. Lo shock – il coup de dés di Mallarmé, ma anche il colpo della macchina alla catena di montaggio – azzera l’esperienza, azzerando tutto ciò che c’è prima e mai anticipando ciò che c’è dopo. L’esperienza ripetitiva non è solo serialità, ma anche azzeramento della serialità precedente, quindi dimenticanza di ogni esperienza precedente e al tempo stesso impossibilità di rilanciare nel futuro l’esperienza accumulata…

La logica della maternità surrogata è esattamente questo: istituzionalizzazione dell’oblio. La madre non diventa madre, ma porta a termine una prestazione. Benjamin fa capire la differenza tra il riprodursi animale, che è intransitivo, e il generare dei figli, che è umano e transitivo. Gli esseri umani generano figli e l’unicità, ma anche l’imprevedibilità di cui il figlio è l’immagine. Il figlio è l’imprevisto inteso come soggetto e non come evento. Nessuno può sapere prima come sarà suo figlio. Ma tutti gli uteri artificiali che stanno immaginando di realizzare sono, invece, istituzioni di una società della trasparenza addirittura prenatale. Viviamo – come è stato detto – nella società della trasparenza, dove si combatte ogni chiaroscuro, ogni segreto, ogni intimità e l’utero artificiale viene immaginato come liberazione dall’oscurità della vita gestazionale. Come se ci fosse un residuo di oscurità che la visione pseudognostica dell’epoca in cui viviamo non può tollerare. Proprio Benjamin diceva una cosa importante: nominiamo i figli appena nati, per cercare di scoprirne l’unicità.

Il tema del nome ritorna anche nel Racconto dell’ancella di Margaret Atwood, a cui dedica un’analisi lucidissima nel suo libro…
Ritorna quel tema quando la donna usata come strumento gestazionale deve consegnare il bambino e le viene impedito di dire il nome che per tutti i mesi della gravidanza lei ha sentito emergere dentro di sé. Nominiamo i bambini appena nati per scoprirli. Il nome nella dinamica di Kiev da cui siamo partiti per la nostra conversazione è quello inaccettabile e disumano di un prodotto commerciale. Come dice senza problemi un famoso economista, oggi c’è una domanda di bambini, come c’è una domanda di beni commerciali.

Parlare di maternità surrogata ci porta, inevitabilmente, a parlare di altro rispetto alla maternità surrogata…
Si tratta di un tema che apre una serie di questioni, tutte decisive, che non possiamo lasciare sullo sfondo. Nella logica di schieramento, tali questioni si perdono.

In copertina, il suo libro riporta un’immagine di Donald Iain Smith…
Tre donne cyborg, tre madri simbolo della madre genetica, della madre gestazionale e della madre sociale. Ma c’è una scissione anche temporale fra le tre: la madre genetica deve essere molto giovane, slanciata, sulla base dei canoni estetici più in voga, , mentre la madre gestazionale deve essere di età più avanzata perché deve già aver avuto delle gravidanze. Infine c’è la madre sociale che può essere… non importa chi; per la tecnica è indifferente.

Lei dedica il suo libro agli studenti di ogni nuovo anno, c’entra qualcosa con tutto il nostro discorso? La dedica non appare di circostanza…
C’è un tema straordinario su cui dobbiamo riflettere: l’abitudine. La tecnologia ci sorprende, perché è sempre nuova, ma poi ci abituiamo e nell’abitudine rischiamo di perdere la straordinarietà in sé, oggettiva, di ciò che essa fa accadere.

La tecnologia, oggi, non vende né aiuta a vendere prodotti, ma costruisce abitudini (habits)…
Chi usa David Hume per legittimare ogni nuova tecnologica riprende la sua idea secondo cui appena arriva qualcosa di nuovo prima ci spaventiamo, poi ci abituiamo ed infine ci accorgiamo che tutte le preoccupazioni che ci affliggevano erano inutili.. Ma c’è un’altra tesi, rispetto a quella di Hume. È la tesi di Blaise Pascal: l’abitudine, sostiene il filosofo francese, è una “seconda natura”. Vuol dire che possiamo abituarci a tutto. Paradossalmente possiamo abituarci persino al disumano, ma il fatto che ci si sia abituati al disumano non lo rende diverso dal disumano. Scongiurare questo tipo di abitudine al disumano è più necessario che mai. Ed è questo – come ha capito – il senso della dedica.


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