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ZeroSei, dove i bimbi aspettano i “grandi speciali”

di Anna Spena

La comunità gestita da Fondazione l'Albero della Vita è nata nel 2002. Dalla sua apertura ha accolto 111 bambini. Qualcuno non viene riconosciuto alla nascita. Altri sono allontanati dai genitori biologici che sono detenuti, hanno problemi di tossicodipendenza, alcolismo o ancora sono malati psichiatrici. Le 7 educatrici della casa li vedono crescere e di fatto li crescono per anni. «Ma noi non siamo né la mamma né il papà», racconta Sara Sanpietri, coordinatrice di ZeroSei. «Vogliamo che trovino una famiglia vera»

B. è un terremoto di due anni che ti guarda diritto in faccia e poi allunga le braccia: “prendimi”. Non è una richiesta la sua. È un’imposizione, vuole essere coccolato. O forse vuole – anche se per poco – essere il centro della vita di qualcuno. Nella comunità ZeroSei di Fondazione l’Albero della Vita B. è arrivato a fine luglio 2016. Prima ancora stava in un’altra comunità – insieme alla sua mamma – e si facevano compagnia mentre lei provava ad uscire dal giro della tossicodipendenza. Ma lei non ce l’ha ancora fatta. Così, in un giorno di piena estate, ha lasciato la comunità e B. una volta rimasto solo è stato portato da ZeroSei.

ZeroSei è nata nel 2002 e accoglie i minori da zero mesi a sei anni. «Da qui sono passati 111 bambini», racconta a Vita.it Sara Sanpietri, coordinatrice della comunità. «Qualcuno non viene riconosciuto alla nascita. Qualcuno ancora viene allontanato dalla famiglia d’origine: i genitori sono detenuti, hanno problemi di tossicodipendenza, alcolismo, sono malati psichiatrici».

La comunità è nata per rispondere alle richieste dei Servizi Sociali e del Tribunale dei Minori di Milano per prendersi cura – momentaneamente – di questi bimbi in difficoltà. «Riceviamo una richiesta ogni due giorni», spiega Sara. «Ma siamo costretti a dire di no».

La “casa dei bimbi” come la chiamano le sette educatrici che ci lavorano, e come l’hanno poi iniziata a chiamare anche i bambini, può ospitare fino a nove persone. Oggi ce ne sono dieci però. L’ultima ospite è arrivata lo scorso 4 novembre: una neonata eritrea di quaranta giorni. La mamma l’ha partorita sul gommone che l’ha portata in Italia. «Adesso lei è ancora in ospedale. Ma quando uscirà verrà a riprendersi la bambina e saranno spostate insieme in un’altra comunità».

Questa bella casa di tre piani – tutta movimentata – è a misura di bambino. La cucina con i tavoli bassi. Il salone, colorato, e stracarico di gioco. Il seminterrato con la dispensa e la lavanderia. «Quando il mese scorso si è rotto un tubo», racconta Sara, «le educatrici hanno lavato i vestitini dei bambini a casa loro». Il primo piano con quattro camere da letto. I lettini per i più grandi e le culle per i neonati, con in più una poltrona letto.

Quella è di una delle educatrici che, a turno, passa la notte in casa. Anche i bagni a misura di bambino: gli accappatoi allineati. I lavandini alla loro altezza. Si sta attenti a tutto. Il tempo di permanenza medio nella casa è di circa due anni e mezzo. «Ci sono capitati casi in cui i bimbi si sono fermati per più tempo. Ma non è un bene. Qui ci sono delle regole e dei ritmi da rispettare, e non vogliamo che questi diventino bambini “istituzionalizzati”», spiega Sara.

«Noi lavoriamo affinché i bambini non restino qui. Anche se è difficile dobbiamo capire che noi non siamo né la mamma né il papà. Questo vale anche per i neonati che passano in sette braccia diverse, che danno il latte in modo diverso, che hanno un odore diverso. E per quanto ci sforziamo di tenere una linea comune rimaniamo persone differenti».

Eppure è dura. Perché le educatrici rimangono 24 ore su 24 con i bimbi. Li svegliano, i più grandi per andare all’asilo e i più piccoli per partire con la nuova giornata, li lavano, li vestono, fanno colazione, li accompagnano a scuola, li riportano a casa. La sera li mettono a letto.

«Ogni bimbo ha il suo rito. Chi le storie, chi le stesse tre canzoni di fila. Chi si vuole raccontare». D’estate li portano al mare: «Dieci giorni. Ci muoviamo tutti insieme, andiamo in Emilia Romagna. Ci piacerebbe organizzare anche qualche mini-vacanza invernale».

Ma bisogna stare sempre attenti ai costi, come in tutte le famiglie. Solo di pannolini qui a ZeroSei, in media, si spendono 400 euro alla settimana. Poi i bimbi devono uscire: «organizziamo spesso delle gite fuori porta». Ed hanno bisogno di vestiti: «Alla cura ci teniamo moltissimo. Non devono essere bambini stigmatizzati dalla società. Non ci piace quella logica “poverini sono stati abbandonati”. Saranno anche stati abbandonati ma sono bambini come tutti gli altri». Il momento più duro per i più grandi, è quando vanno a scuola: «All’uscita, quando li andavamo a riprendere, ci chiamavano “mamma”.

Lo facevano per sentirsi uguali agli altri. Per un po’ glielo abbiamo permesso. Poi poco alla volta abbiamo detto loro “vi ricordate i nostri nomi? Lo sapete che non siamo le vostre mamme”». Non è crudele questa cosa. È dolorosa. E lo è anche per l’educatore che però deve fare sempre il bene del bambino. «Loro capiscono tutto, non gli si può mentire. Così per spiegargli le cose utilizziamo sempre il rimando alla realtà e gli diciamo: “io sono sicura che la tua mamma ti vuole bene, e ti sta pensando. Ma io adesso non lo so dove si trova”».

Li vedono crescere e di fatto li crescono per anni. Tenendo sempre presente che non sono figli loro. Ma li preparano al momento in cui torneranno a casa o, di casa ne avranno una nuova. «A volte capita che i bambini tornino dalla famiglia d’origine. Succede quando le mamme e i papà iniziano percorsi paralleli in altre comunità. Qualcuno può fare visita ai bambini una o due volte alla settimana. A volte però – all’improvviso – spariscono».

La maggior parte viene data in affidamento alle coppie che risultano idonee. Pochi vengono adottati: «Fino al 2010 le adozioni erano di più. Poi tutto si è rallentato». Ma quel momento prima o poi arriva. «I bimbi aspettano una mamma e un papà. Vogliono vivere una vita normale con dei grandi che stiano con loro sempre: qua dobbiamo dividerci sempre».

I grandi. Che da ZeroSei si chiamano “i grandi speciali”. «Utilizziamo questa espressione perché sono tanti i bimbi che ricordano o chiedono ancora dei loro genitori naturali», spiega Sara. In comunità si utilizza la metafora del libro: «Lo facciamo perché tutto per i bambini abbia più senso. “Ogni bimbo”, diciamo loro, “ha il suo libro che viene letto dell’assistente sociale e dal giudice”».

«Su questo libro immaginario c’è scritta tutta la storia del bambino e quando l’assistente sociale avrà finito di leggerlo saprà cose scegliere per quel bambino: farlo rientrare nella famiglia d’origine o affidarlo ad una famiglia nuova».

Quando il momento arriva le educatrici convocano il bambino e gli dicono “le pagine del libro sono quasi finite”. «Così lo prepariamo e la coppia affidataria o adottiva viene in comunità. Per prima cosa gli raccontiamo chi è quel bambino e poi iniziano i contatti, a volte anche fuori dalla casa, fino a quando non si è pronti per questa nuova vita». La nuova vita comincia con la “festa del ciao ciao”.

«La mamma e il papà arrivano in casa, noi gli consegniamo un album con tutte le foto scattate in questi anni. I bimbi si salutano».
​Qualcuno va. Qualcuno ancora resta. Eh si, qualcuno – subito dopo – arriva. “Grandi speciali”, il percorso è duro ma voi fatevi avanti…

ZeroSei, dove i bimbi aspettano i “grandi speciali”

Testi e foto di Anna Spena


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