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Giovani

Social fashion, un’impresa di pace

di Sara De Carli

Può un'impresa dare un contributo alla pace? Gli ex studenti di Rondine Cittadella della Pace, l'associazione che è stata candidata al Nobel, sono certi di sì. Tre di loro all'iniziativa "Fare la Pace è un'Impresa" hanno presentato i progetti che stanno realizzando nei loro paesi d'origine, paesi che vivono un conflitto. Forti dell'esperienza di convivenza maturata nei due anni italiani

Nadia viene dalla Russia, da una famiglia in cui si mischiano quattro diverse popoli: ebrei, russi, greci e un popolo dal Caucaso… Fin da bambina sognava di diventare una stilista, anche se a lei piace di più “progettista di moda”, come si dice in russo. In quel “progettare i modi” lei, da adulta, ha trovato la sua missione: «creando l’abbigliamento si creano le modalità, si possono costruire i modi di comportamento e i valori». Nadia Shaulova ha aperto “Social Fashion”, che vuole unire culture e tradizioni di popoli in conflitto, attraverso la moda. L’idea è maturata dopo aver frequentato per due anni Rondine Cittadella della Pace, l’associazione che nel borgo medievale di Rondine, in provincia di Arezzo, fa convivere fianco a fianco studenti provenienti da paesi in conflitto. Qui i giovani studiano “da leader”, nel senso che al rientro nel loro Paese hanno tutte le carte in regola per ricoprire ruoli di rilievo e incidere positivamente nella realtà sociale, politica ed economica dei propri paesi. Tre di loro, a Milano, hanno raccontato questa sera la propria esperienza imprenditoriale nell'iniziativa "Fare la Pace è un'Impresa": un’impresa per un’economia capace di risolvere i conflitti, un’impresa per fare la pace. Sul palco insieme a loro – Nadia Shaulova dalla Russia, Ahmed Osman dal Sudan con il suo “Daylight” e Natali Kenkadze, georgiana, con il suo “Generator 9.8”, il primo coworking sociale realizzato a Tbilisi – c’era Bruno Cucinelli.

Social Fashion

«Credo che unendo in un abito unico elementi delle culture e delle storie di diversi popoli e nazioni, si può praticare la pace, indossare la pace», afferma Nadia: «Il tessuto è di per sé un intreccio di fili, il simbolo di unione di popoli e culture in un mondo unico e armonioso, come una tela». L’idea di Nadia è quella di un laboratorio creativo che realizzi collezioni di abbigliamento e accessori, nati dalla ricerca di materiali nei paese in conflitto, unendo così il patrimonio di culture antagoniste. Per questo nel suo laboratorio non lavorano solo sarte ma professionisti della psicologia, dell’arte, della moda… «Noi non possiamo fermare le guerre, ma possiamo dare la fiducia l’uno all’altro, possiamo scambiarci il vestito per vedere il mondo dell’altro, per scoprirne la bellezza, per capire le differenze e le uguaglianze. E possiamo donare la gioia e la luce nella convivenza, nella collaborazione e nella confidenza. Forse così possiamo fare il mondo un pochino migliore. Questa è la pace», ha detto Nadia.

La prima collezione di Social Fashion sarà presentata a giugno a Rondine ed è dedicata ai popoli di Israele e Palestina. Nadia è appena tornata dal suo viaggio, insieme al suo team, che ha girato i campi di profughi in Palestina dove si fanno i ricami tradizionali come le fabbriche dei tessuti per gli abiti religiosi ebraici. «Siamo stati dai beduini nel deserto, che mi hanno insegnato a ricamare. Abbiamo trovato un villaggio di un popolo con origini russe dal Caucaso, siamo stati nel quartiere armeno e nel quartiere etiope a Gerusalemme. Nel nord di Israele abbiamo scoperto una nazione “segreta” che si chiama Druze», racconta Nadia: «io ho indossato vestiti di tutte queste diverse nazioni. Ho indossato la loro storia, il loro dolore, ho vissuto le loro speranze. Io ho provato la sensazione di essere parte di loro, anzi di essere loro. Ma in questo viaggio per la ricerca degli altri, per creare qualcosa di terzo, in realtà così ho trovato me stessa».

Nadia ha spiegato come «attraverso questo viaggio ho visto come le persone che erano coinvolte nel progetto superavano i propri limiti. Come il nostro fotografo israeliano, che ha vissuto la guerra a Gaza ed è stato ferito, e Sabrina, una giovane mamma palestinese che ci ha ospitato: loro due sono stati a tavola insieme, raccontavano le proprie vite, provando lo stesso dolore. Così non era più un dolore di due nemici, ma era un dolore di un cuore unico. È stata una sorpresa vedere come il progetto ha già ha iniziato a cambiare le cose prima di essere arrivato a compimento, cioè prima della collezione di abbigliamento: il processo è molto importante, forse più del prodotto finale».

Daylight

Ahmed è sudanese. Ha vissuto quasi tutta la sua vita a Sirte, in Libia: «una bella vita, avendo sempre a disposizione elettricità, acqua, cibo, vestiti e istruzione. «Avevo tredici anni quando sono andato per la prima volta a Khartoum, la capitale del mio paese di origine, e lì ho sperimentato per la prima volta nella mia vita la mancanza di elettricità e di acqua. Sono tornato in Libia con uno scopo, studiare ingegneria elettrica per aiutare le persone». Ahmed Osman è un altro ex studente di Rondine che ha portato la sua testimonianza: il suo “Daylight” attiverà un programma per portare energie rinnovabili in Sudan attraverso il microcredito. Ahmed è arrivato a Rondine nel 2015, dopo essersi specializzato all’Università nelle energie rinnovabili. Il suo sogno era di fornire alle città del Sudan un sistema “off grid” di energia solare e voleva fare un master in energie rinnovabili. Di Rondine sentì parlare un giorno alla radio: «ciò che mi ha spinto a fare domanda è stato che ai candidati veniva richiesto di avere un progetto di impatto sociale da voler realizzare nel proprio paese di origine, per promuovere lo sviluppo». Non ha fatto il master che pensava, «ma grazie alla formazione di alto livello a Rondine ho potuto vedere il mio continente e il mio paese da lontano, con occhi diversi. Mi sono reso conto che per riuscire a cambiare l’Africa è necessario che gli africani cambino prima di tutto loro stessi. Abbiamo bisogno di aiutare noi stessi. La mia idea si è trasformata. Voglio creare una comunità in cui la gente abbia accesso all’energia, alla tecnologia, all’acqua, ai bisogni primari e in cui le persone siano autonome, politicamente consapevoli, ecologicamente responsabili e costituiscono un esempio per le altre comunità».

Generator 9.8

È stato il primo coworking sociale mai realizzato a Tbilisi. L’ha fondato nel 2015 Nato Kenkadze, 28 anni, della Georgia: è stato premiato come miglior impresa sociale della Georgia, nonché come uno dei migliori bar dell’Europa dell’Est. Durante il giorno lo spazio è dedicato al coworking, con associazioni, startup e liberi professionisti che svolgono il loro lavoro e nello stesso tempo collaborano fra di loro. La sera lo spazio si trasforma in un club sociale, con diversi tipi di eventi. In un anno e mezzo gli spazi di Generator 9.8 hanno visto 200 lezioni, 50 mostre d’arte, 80 film, 400 concerti, 50 start up meet up. «Dopo aver finito il mio progetto di Rondine, nel 2014, sono tornata in Georgia e ho continuato a lavorare con la mia associazione, cercando di sviluppare la mia nuova idea, abbastanza utopistica per quel momento. Cioè, creare un’impresa sociale che fosse uno spazio e piattaforma alternativa e collaborativa. Un coworking gratis e un bar sociale. Ho condiviso l’idea con i miei amici ed eccoci qua», racconta Nato. Nel non profit lei ci ha sempre vissuto: nel 2011 ha fondato un’organizzazione non-governativa, “Il centro internazionale per la pace e l’integrazione” che realizza diversi progetti che coinvolgono i giovani, dedicate alla costruzione della pace. Ha una laurea in Business & Management e un master in non-profit management. Da Rondine ha avuto una marcia in più: «un’autentica educazione alla pace, unita al mio Master in management del non-profit, che mi ha aiutato ad implementare tutte le idee che avevo, una volta tornata a casa».


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