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Reportage

Nella New York che evita le deportazioni dei dreamers

di Daniele Biella

Nella città che non dorme mai, in piena emergenza homeless anche di giovane età, ecco come i volontari del Migrant center dei francescani assistono legalmente le vittime della stretta ai permessi per migranti voluta da Trump. E anche all'Onu è attiva una presenza per fare lobby a favore dei diritti umani

No limits. Al primo sguardo, New York corrisponde in tutto e per tutto all’immaginario: un melting pot di persone provenienti da tutto il mondo senza alcun limite di crescita, come gli impressionanti grattacieli che costellano le streets e le avenues di Manhattan. Poi entri nei meandri, conosci le storie, il gioco di luci e ombre, e capisci che i rovesci della medaglia sono tanti, in continuo andirivieni dal positivo al negativo. Capita di vedere un homeless, che appena vede una famiglia con bambini in metropolitana lascia il posto, oppure un cameriere con il sorriso e la cortesia di chi non ha nulla da nascondere, nemmeno l’essere arrivato dal Messico saltando la recinzione alla frontiera, perché “l’importante è avere un lavoro per andare avanti, e se succede qualcosa di negativo poi si vedrà come andare avanti”. La Land of Freedom, la terrà della libertà che ti accoglie con la celeberrima statua con la fiaccola ben alta in mano all’ingresso del porto, è la quintessenza dei fenomeni migratori. Nell’essere riuscito ad arrivarci, a questa terra, sta il senso, l’opportunità. Fra le strade squadrate piene di turisti, uomini d’affari, campi di street basket, tombini che fumano e andirivieni di mezzi di trasporto a ogni ora del giorno e della notte, Manhattan non smette comunque mai di ammaliare. La skyline si rinnova ogni anno con nuove torri d’affari sempre più alte: “ora le costruiscono i ricchi russi, arabi e cinesi”, ti dicono gli abitanti di lunga data, e la visione è, per un attimo, quella che la scalata dell’uomo verso il cielo sia una cosa fattibile. Poi, ovviamente, torni con lo sguardo a terra. E vedi che, rimboccandosi le maniche, gli ultimi della società convivono con tutto questo. Con a fianco chi cerca di dare loro una mano.

Una mano diversa rispetto a quella del governo a guida Donald Trump, quest’ultima dura e oppositiva in particolare contro i migranti che risiedono nel paese senza i documenti di permanenza in regola. La quintessenza del cambio di rotta rispetto all’amministrazione Obama è la decisione di sospendere il Daca, il programma introdotto da Obama per regolarizzare chi era arrivato negli Usa da minorenne – i cosiddetti dreamers, sognatori – e si era fatto una vita divenuta “regolare” a livello lavorativo ma non nei documenti. Accade oggi che persone che da anni se non addirittura da decenni lavorano negli Stati Uniti, arrivati da minorenni, vengano rimandati nelle patrie quasi dimenticate. Di fatto disgregando la famiglia dato che i figli, nati e cresciuti negli States, possono rimanere. “Assistiamo a situazioni terribili, persone sradicate dalla famiglia e dal posto in cui vivono da decenni”, esordisce frate Julian Jagudilla, francescano che dirige il Migrant center a lato della chiesa di San Francesco d’Assisi nel cuore di Manhattan, sulla 31sima strada, tra Midtown e Downtown. Qui, ogni mattina alle 7, ricevono la colazione fino a 500 persone senzatetto, di tutte le età: molti giovani della provincia americana, finiti a mendicare e dipendendo dai ramificati servizi sociali della Grande Mela per problemi di droga ma anche traumi personali o familiari, reduci di guerra che non hanno trovato lavoro e stabilità mentale al ritorno e provenienze. “Ma è l’unica attività di puro assistenzialismo che facciamo, gran parte dei nostri sforzi sono dedicati a rendere le persone consapevoli dei loro diritti, in particolare chi è arrivato da un altro Paese e, soprattutto ora, sta vivendo momenti di forte sgomento”. Sono i dreamers, appunto. “Parliamo di almeno 100mila persone nella sola area di New York, diversi milioni in tutti gli Usa”, sottolinea Jagudilla, che oggi ha 55 anni e sa bene cos’è un viaggio migratorio, dato che è originario delle Filippine da dove si è allontanato quando era seminarista dopo avere resistito a fianco della popolazione facendo attivismo umanitario negli anni della ventennale dittatura di Marcos, durata fino al 1986.

È una posizione netta quella del Migrant center, che fin da subito ha preso posizione a fianco dei dreamers anche con iniziative pubbliche. “Stiamo parlando di persone che possono subire controlli nelle loro case, per strada, al lavoro e, di punto in banco, perdere tutto quello che hanno costruito in anni. Soprattutto provenienti d Messico e altri Stati dell’America Centrale, ma non solo”, indica il direttore del Centro francescano per migranti, che è attivo dal 2013 ed è presente anche in New Jersey e Connecticut. “Ricevo decine di telefonate, una delle ultime che mi ha lasciato più scosso è quella di una donna polacca che vive e lavora a New York da almeno un ventennio e quando è stata fermata dalla Polizia non aveva altro documento se non il proprio passaporto scaduto da ben 19 anni!”. Una vicenda esemplare: “mi ha chiamato dopo essere uscita di prigione, dove è stata tre settimane, subendo interrogatori come se fosse una terrorista e avendo dovuto raccogliere 5mila dollari di cauzione”. Ora la donna è sotto la tutela del Migrant center: non si sa cosa succederà e se si riuscirà a evitare il rimpatrio ma per lei come per molte altre persone gli avvocati del centro francescano sono all’opera. “L’assistenza legale per ottenere una green card, la cittadinanza o la protezione umanitaria è uno dei tre servizi che dedichiamo ai migranti, gli altri due sono seminari di ‘educazione per tutti’ per aumentare la loro consapevolezza sulle leggi dell’immigrazione negli Usa e l’attività di advocacy per fare conoscere agli stessi i propri diritti, ultimamente con una campagna chiamata levàntense/standup”, ovvero ‘state in guardia’.

Come affrontare queste storie in un periodo in cui la politica va in un’altra direzione? “Dobbiamo fare lobby per avere politici che pensino al bene comune e non solo di una parte della società. Papa Francesco con le sue parole ci guida, siamo la Chiesa dei poveri e ogni persona in difficoltà deve trovare aiuto”. Quando spieghiamo a Jagudilla che un prete italiano nell’ultima lavanda dei piedi si è rifiutato di lavarli a una persona richiedente asilo di pelle nera la sua risposta è netta: “è inammissibile, spero che il pontefice si stia già adoperando per cacciarlo dalla Chiesa”. Il problema della chiusura rispetto alle migrazioni c’è nelle comunità cristiane di oggi. “Sì, così come il razzismo. Bisogna affrontarlo direttamente con gli insegnamenti cattolici: ogni tipo di discriminazione è contro ciò che è scritto nei testi sacri e la dignità umana va rispettata a prescindere del colore della pelle, della provenienza, della lingua e dell’orientamento sessuale”. E' l'insegnamento che si recepisce andando a visitare l'intensa struttura dell'isolotto di Ellis Iland, dove nei primi anni del '900 passarono milioni di persone che avrebbero poi plasmato gli Stati Uniti cosmopoliti di oggi, ma anche quello che si eleva dal grido di doloore silenzioso delle due cascate artificiali che commemorano l'attentato dell'11 settembre 2001, installate sul luogo in cui sorgevano le Twin Towers, Torri gemelle.

Se l’attività del Migrant center si occupa soprattutto di quanto accade a New York, c’è un’altra struttura francescana, in questo caso composta in buona parte da suore e laiche, la ong Franciscan International, che ha installato il proprio ufficio a una avenue di distanza dal palazzo delle Nazioni Unite (che si trova in piena Manhattan sulla riva del fiume Hudson) e dal 2014 si reca tra i diplomatici Onu per fare attività di lobby. “Siamo presenti anche alla sedi di Ginevra da 10 anni, cerchiamo di ottenere più appuntamenti possibili con i delegati dei vari Paesi per convincerli a inserire in ogni azione possibile il tema dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda le migrazioni, il cambiamento climatico e gli obiettivi Onu sull’ambiente”, spiega Odile Coirier, religiosa francese referente della ong che vive a New York da due anni, dopo averne passati cinque a Ginevra. “E’ un lavoro in cui bisogna avere pazienza e tenacia, perché i cambiamenti sono lenti così come i processi decisionali. Ma nonostante le difficoltà dell’Onu di cui tutti siamo consapevoli – in particolare l’essere un ente basato sull’ambiguità di comprendere molti Stati del mondo ma di non avere giurisdizione su nessuno di essi – vediamo che la consapevolezza di questi ultimi anni è maggiore rispetto a prima”, sottolinea Coirier, il cui gruppo di lavoro opera a stretto contatto con una rete di altre ong sia a ispirazione cristiana, tra cui gli Agostiniani e i Passionisti, che laica. La referente di Franciscan international fa riferimento soprattutto al Global Compact, il documento che dovrà vedere la luce entro la fine dell’anno e sarà il primo testo ufficiale a dichiarare gli obiettivi per migliorare la situazione dei milioni di rifugiati climatici nel mondo. “Ci sono Paesi con i quali è impossibile dialogare, e sono quelli che hanno evidenti politiche di chiusura. Ma con molti altri le negoziazioni portano risultati”, aggiunge.

È impressionante passare dal quanto accade in strada alle dinamiche dell’Onu e poi tornare in strada: New York racchiude tanti mondi diversi in così poco spazio e soprattutto con una velocità così alta che destabilizza. La sensazione è che nonostante i cambiamenti in atto nel mondo e lo spostamento degli assi geopolitici, la città più nota e desiderata al mondo – un cantiere perennemente aperto di opere e idee – possa influenzare le scelte globali verso un miglioramento tanto necessario quanto urgente: “la leva è la società civile”, indica la via la referente di Franciscan international, “dove la politica è sorda al rinnovamento, la società civile deve muoversi e fare cambiare le cose”. Accade, a volte? “Sì, e proprio sulle piccole vittorie bisogna costruire, per superare lo sconforto delle grandi sconfitte dell’umanità”. Una su tutte è condensata in un solo nome: Siria.


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