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Compiere 18 anni a Tuzla

di Marica Fantauzzi

La storia di Asra una dei 700 bambini che vivono in Bosnia affidati a distanza a famiglie italiane grazie al sostegno di numerose associazioni locali tra cui la ong Tuzlanska Amica

Duje, Bosnia ed Herzegovina – Il caldo della stanza dove aspettiamo Asra stona con il gelo dell’inverno bosniaco. Mentre ci togliamo le giacche, dalla finestra si intravedono delle figure opache camminare avanti e indietro con delle ciabatte strette e cappotti larghi. Una di loro cerca dei mozziconi di sigaretta fra gli angoli dei marciapiedi, li trova, gratta il tabacco rimasto e corre via.

Asra ha vissuto gran parte della sua vita nell’orfanotrofio di Tuzla, “il Dom”, come lo chiamano i ragazzi di qui. Aveva già sei anni e stava per iniziare la scuola quando una donna, si pensa fosse un’ italiana in visita al Dom, le diede il nome di Asra, rifiutandosi di chiamarla NN – come sembra avessero fatto tutti fino a quel momento. A raccontarmelo è Stefania, che da più di dieci anni fa avanti e indietro fra Roma e Tuzla. Tramite Tuzlanska Amica, un’ong nata ufficialmente nel 1996 ma attiva già agli inizi della guerra nel 1992 per sostenere i bambini e le persone sfuggite dai campi di concentramento e dalla pulizia etnica, Stefania ha incrociato le vite di decine di ragazzini, tra cui proprio quella di Asra.

Circa 700, sono ad oggi i bambini in Bosnia affidati a distanza a famiglie italiane grazie al sostegno di numerose associazioni locali. Tra le tante attività, accanto all’affidamento a distanza, Tuzlanska Amica segue anche i ragazzi dopo il compimento dei 18 anni tramite una casa d’accoglienza una sorta di casa dello studente, che ospita ogni anno tra gli 8 e i 10 ragazzi che, una volta usciti dal Dom, continuano con il loro percorso lavorativo e/o d’istruzione.

In alcuni casi però il Dom, non riuscendo a gestire a pieno le difficoltà di alcuni ragazzi – magari con evidenti problemi a scuola e/o inquietudini – li dirotta in altre strutture. Una di queste è a due ore di macchina da Tuzla, a Duje. Asra da qualche anno vive lì, insieme ad altre ragazze, in una casa famiglia che confina con il “Reception Center”, ossia un centro di recupero attivo dal 2004 che ospita 400 persone appartenenti alle categorie definite “vulnerabili”, come anziani, senza tetto, e un esercito di dimenticati che dopo la guerra si è moltiplicato.

Come il suono della campanella che a scuola ti destava da un torpore profondo, così la voce di Asra ci desta da quell’ immaginario fuori dal tempo e dallo spazio.

«Andiamo! Siete pronti? Via, via, via!»

Asra compie 18 anni. Stefania ha organizzato il viaggio per farle festeggiare il suo compleanno in quella che per tutta l’infanzia è stata la sua casa. La camicia rossa è stirata per l’occasione, il papillon nero e bianco pende dalla stampella oscillando a destra e a sinistra mentre la macchina di Nihad percorre la strada che da Duje ci porta a Tuzla.

Se Sarajevo «sa di pane», come una volte mi disse uno chef, Tuzla ha il sapore amaro del carbone. La centrale termoelettrica della città è il motivo per cui, mi dicono in molti, i nostri vestiti «puzzeranno finché non ti abitui» e, cosa ben più grave, è il motivo per cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito Tuzla fra le città europee più inquinate.

Mentre percorriamo la strada che costeggia la centrale, Asra siede accanto al finestrino e non sembra badare alla fitta coltre di fumo bianca che ci attende. Stefania le sta accanto, la guarda con gli occhi di chi vorrebbe custodire qualcosa di bello e fragile insieme. Cerca di stare al passo del suo entusiasmo, un passo svelto che non merita tentennamenti. Stefania lo sa e cerca di non perdersi fra i mille pensieri che le affollano la mente ogni volta che vede Asra. Quando era piccola, la relazione era più naturale, quasi fisica. Adesso – racconta – «riesco solo a pensarla con ansia, per il suo futuro, le sue scelte o non scelte, le molte ingiustizie assurde che ha dovuto sopportare, le molte sue ingenuità e le tante irrequietezze. Ma poi magari la sento un giorno al telefono ed è dolcissima, saggia e soprattutto paziente e allora mi si apre il cuore. Il fatto di esserne responsabile in qualche modo mi agita, non ho pensieri molto positivi e non mi stimo per questo e ci devo convivere ogni giorno».

Chi decide di intraprendere l’adozione a distanza- come Stefania- segue i ragazzi lungo tutto il percorso scolastico, cercando di sostenerli il più possibile, non solo da un punto di vista economico. Ma il futuro per loro, una volta usciti dal Dom, non è per niente facile.

«Il futuro fuori dall’orfanotrofio mette paura all’inizio», dice Adnan Hodzic, «per 18 anni non sei mai stato solo, non hai mai avuto una chiave di casa, esiste solo ciò che è “nostro”». Adnan, “Ado” per gli amici, è nato nel 1992, proprio l’anno in cui iniziò la guerra. La madre e il padre lo abbandonarono ancora in fasce in ospedale. «Anni dopo ho saputo che non stavano neanche più insieme, erano appena fidanzati all’epoca, e nessuno dei due sarebbe riuscito a crescermi durante la guerra». Il nome glielo scelse una dottoressa. «L’ho conosciuta tre anni fa, ora è andata in pensione. Fu un incontro intenso». Ado non si ricorda la guerra, perchè appena nato, un’associazione umanitaria riuscì a portarlo in un territorio neutro, che all’epoca era il Montenegro. Finita la guerra i patti erano però che i bambini bosniaci tornassero in Bosnia. «In Italia si parla molto dell’emergenza migranti, ma mi rifiuto di pensare che l’Italia sia un paese razzista. Più di venti anni fa i rifugiati eravamo noi e centinaia furono le famiglie italiane pronte a darci una mano. So che quell’ umanità non è scomparsa». Oggi Ado sta per diventare un educatore, vorrebbe lavorare nell’orfanotrofio che l’ha cresciuto «perché se è vero che in Bosnia il futuro non c’è, uno dei pochi posti dove puoi trovarlo è proprio lì».

Arrivati a Tuzla Asra si fionda tra le braccia della sua famiglia. Aky, Esmer, David, Eldar, sono solo alcuni tra i ragazzi che quest’anno dopo i loro 18 anni andranno via dal “Dom” che li ha cresciuti. «Qui», dice Aky nel suo blog, «ho conosciuto un sacco di bambini spiritosi e divertenti. Ognuno di loro combatte la sua battaglia, ma con le armi della gentilezza. Questa è la mia grande famiglia».

Se qualcuno fosse entrato alla festa di Asra senza sapere le storie di quei ragazzi lì, non avrebbe avuto dubbi. Erano semplicemente degli adolescenti felici, vibranti alla soglia dei loro sogni.

Zijo Ribic, guardandoli, si ricordava di quando al posto loro c’era lui. Oggi Zijo ha quasi 35 anni, e il Dom di Tuzla lo accolse, dopo esser passato per l’ospedale di Zvornik durante la guerra e un Dom in Montenegro a guerra finita. Zijo aveva appena sette anni quando che un gruppo paramilitare di cetnici invase Skocic, il suo piccolo villaggio. Dopo essersi finto morto, nella fossa comune dove massacrarono la sua famiglia e tutti gli abitanti del villaggio, scappò verso Tuzla. Zijo è il primo rom ad aver testimoniato contro i crimini di guerra commessi in Bosnia. Il processo al Tribunale per i crimini di guerra a Belgrado si è concluso nel 2015, gli imputati sono stati assolti e non perché non fossero responsabili, piuttosto perché «risultò impossibile determinare le responsabilità individuali».

«Dopo più di vent’anni», racconta Zijo, «c’è ancora l’odio. Nelle scuole, per le strade, ancora lo puoi sentire. Guardo questi ragazzi e mi chiedo cosa faranno dopo, ma poi penso a quello che abbiamo superato, e allora ritrovo un po’ di fiducia. Gli europei quando vengono in Bosnia parlano sempre di pace, ma dobbiamo parlarne noi. Voi poi ve ne tornate a casa, noi rimaniamo».

La torta è finita e i loro 18 anni sono appena iniziati. Mentre si scattano selfie e ascoltano rap italiano con intermezzi neomelodici bosniaci, i ragazzi figli di una Bosnia ferita hanno in mano una verità, che qualcuno, anni prima, aveva messo in versi.

La cosa più importante quando cominciammo a scrivere non era tanto creare versi quanto nei versi riabilitare l’amore.

Su tutto quanto ci circondava aleggiava l’ombra della guerra passata. Dovevamo per noi stessi e per la gente intorno a noi riscoprire la bellezza delle mattinate d’inverno e il valore di un sorriso dal finestrino del treno dei gitanti.

Dovevamo riabilitare tutte le parole dell’uomo perché da coltello fino ad erba tutte erano macchiate di sangue.

Scrivere una poesia era la stessa cosa che piantare una betulla in un parco a venire o mettere un campanello ad una porta

Izet Sarajlic, Libro degli Addii (1996)


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