Diritti
La giornalista afghana Zahra Joya: «Il mio Paese non otterrà la libertà senza istruzione»
Aveva 5 anni quando il primo regime talebano arrivò al potere nel 1996 e, come tante altre ragazze che non potevano studiare, si travestiva da uomo e si faceva chiamare Mohammed. Nel 2020 ha fondato il giornale Rukhshana Media e nel 2021 è è stata costretta a scappare a Londra dove continua a raccontare le storie delle donne afghane: «Pubblichiamo report e reportage investigativi sull'impatto del regime talebano sulla vita delle donne e abbiamo una sezione chiamata "Women Narrative" in cui raccogliamo le testimonianze per far capire cosa significa vivere in un Paese dove essere una donna è considerato un crimine»
Zahra Joya aveva 5 anni quando il primo regime talebano arrivò al potere nel 1996 e, come tante altre ragazze che non potevano studiare, si travestiva da uomo e si faceva chiamare Mohammed per poter andare a scuola finché in Afghanistan arrivò la missione internazionale guidata dalla Nato ed è stata libera di riappropriarsi della sua identità. Figlia di un magistrato, sembrava destinata a diventare avvocato ma dopo aver studiato legge ha deciso di inseguire il suo sogno di diventare giornalista. E di fondare una testata fatta, diretta e dedicata alle donne «perché erano discriminate e venivano pagate meno», ha raccontato alla terza edizione Festival della Missione 2025 che si è tenuto a Torino dal 9 all’11 ottobre per far incontrare i volti e le voci di tutte le periferie di tutto il mondo.
Zahra Joya ha fondato Rukhshana Media nel 2020, in memoria di una ragazza lapidata dai talebani perché si era ribellata a un matrimonio forzato. Costretta a scappare di nuovo nell’agosto del 2021, ora Zahra Joya vive a Londra dove continua a raccontare le storie delle donne afghane grazie alla sfida di tante reporter che nel suo Paese lavorano clandestinamente per far uscire storie, inchieste e notizie. Finita sulla copertina del Time Magazine come una delle donne leader del 2022, ci ha raccontato del suo lavoro, delle minacce dei Talebani, della speranza che l’Afghanistan non venga dimenticato.
«Pubblichiamo report e reportage investigativi sull’impatto del regime talebano sulla vita delle donne e abbiamo una sezione chiamata “Women Narrative” in cui raccogliamo le testimonianze per far capire cosa significa vivere in un Paese dove essere una donna è considerato un crimine». Come Marian Amiri (nome di fantasia) che ha scritto «Ho 16 anni e vivo in Paese dove non posso neanche parlare con le mie coetanee: le nostre voci sono state bandite dai talebani perché considerate immorali. E ho un sogno: alfabetizzare i miei genitori che hanno avuto a loro volta un sogno, mia madre di essere medico e mio padre di diventare ingegnere, ma non hanno potuto farlo. Facciamo in modo che tutti i nostri genitori diventino alfabetizzati, così potremo avere un mondo istruito. Quando il nostro Paese sarà istruito, credo che tutti noi potremo realizzare i nostri sogni».
Ovviamente la testata è focalizzata sul diritto all’istruzione, dato che le ragazze non possono accedere alla scuola superiore. «Credo che nessun Paese possa ottenere la libertà senza istruzione. Attraverso l’educazione potremmo proteggere le nuove generazioni: in quattro anni i talebani hanno aperto più di ventitremila scuole religiose, le madrasse, che rappresentano un grande pericolo. Dobbiamo lavorare per proteggere il diritto all’istruzione delle nuove generazioni per proteggere il loro futuro, ma ciò che è davvero importante per noi è riuscire a non fare precipitare l’Afghanistan e i diritti delle donne nell’oblio», racconta. «Perciò continuiamo ad amplificare la loro voce. Non bisogna dimenticarle per un semplice motivo: se una parte di questo mondo è malata, la malattia prima o poi contagerà tutti», spiega a VITA. «Le nostre giornaliste hanno uno pseudonimo. Nessuno sa chi siano. Sappiamo che è rischioso, che i talebani potrebbero individuarle ma fino ad ora siamo riuscite a proteggerle anche se non sappiamo cosa può succedere domani o magari proprio in questo istante ma andiamo avanti perché voglio continuare a far sentire le voci delle donne di cui non posso mostrare il volto», ci ha detto.
In Afghanistan una donna su tre diventa moglie prima di diventare maggiorenne, di cui il 10% ha meno di 15 anni e i matrimoni forzati delle bambine sono aumentati del 13%. «Nel mio Paese c’è un apartheid di genere e quello che stanno facendo I talebani ora è peggiore rispetto al precedete regime talebano: sono stati approvati più di cento decreti contro le donne e ora se la polizia della moralità vede due donne che parlano tra loro a voce alta, possono arrestarle e punirle. E mi scoppia il cuore quando vedo alcuni stranieri andare in Afghanistan e dire: “L’Afghanistan è in pace”».
L’ultimo articolo che ha scritto dall’Afghanistan, lo ha fatto in aeroporto mentre aspettava di salire a bordo dell’aereo che l’ha portata a Londra nell’agosto del 2021. «Ho visto una donna da sola con sua figlia accalcata nella folla per riuscire a salire un aereo e ho pensato: questa è una storia terrificante che il mondo dovrebbe conoscere». Aiutata a fuggire dal Guardian con cui ha collaborato e pubblicato il Women report Afghanistan series dedicato alle donne che sono scappate, Zahra non dimentica il suo popolo Hazara, perseguitato dai talebani, e vittima di un genocidio mai riconosciuto. L’ultima inchiesta che ha pubblicato prima di venire in Italia è stata dedicata alla pulizia etnica del suo popolo: «Recentemente sono stata in Pakistan dove sono fuggite tante persone Hazara. E mi hanno raccontato che il governatore talebano di Bamiyan ha detto: “Non accetto cibo da una casa Hazara perché è sporco”. I Talebani stanno prendendo le terre degli Hazara e li stanno costringendo a lasciare le loro case».
La giovane pluripremiata direttrice di Rukhshana Media è stata più volte minacciata sui social media, sin dall’inizio: «Avevamo pubblicato una storia su una donna, Aliya Azizi, che era scomparsa a Herat dopo l’arrivo dei talebani. E oggi non sappiamo se sia morta o ancora viva. E un talebano mi ha scritto: “Stai facendo propaganda contro l’Emirato Islamico. Se non smetti di fare questo tipo di lavoro, troverò te e i membri della tua famiglia” ma non sapeva che la mia famiglia era già fuori dall’Afghanistan».
Zahra Joya è preoccupata per il futuro di Rukhshana Media: «Abbiamo ricevuto un finanziamento dal Malala Fund, l’organizzazione fondata dal premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai, ma non sappiamo per quanto tempo continueremo e rendere sostenibile il nostro lavoro. La mia speranza è quella di trovare nuovi donatori che ci permettano di andare avanti perché se non è stato possibile esportare la democrazia con le armi, possiamo e dobbiamo riuscirci con l’informazione: quando le donne hanno uno spazio per pensare e scrivere, possono cambiare il futuro».
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