Recensioni

La voce di Hind Rajab, che non parla mai dei suoi carnefici

Il film tunisino Leone d’Argento-Gran Premio della Giuria alla mostra del cinema di Venezia ha come protagonista una bambina palestinese di cinque anni che appare solo con la sua voce in cerca di aiuto. I soldati israeliani che hanno appena ucciso i suoi familiari non sono mai nominati. Rimangono sullo sfondo, lasciando spazio a una narrazione di straordinaria e tragica umanità

di Stefano Arduini

“La voce di Hind Rajab” è un film che spiazza. E lo fa grazie alla qualità degli interpreti e all’intuizione della regista di scrivere un instant film a partire dalla traccia audio di un soccorso umanitario. Ma a sorprendere è soprattutto ciò che la voce non nomina. Una lezione magistrale di cinematografia che offre uno sguardo inedito sul massacro di Gaza e sul suo modo di raccontarlo. Un punto di osservazione di cui fare memoria sulla via di una pacificazione, complessissima e certamente lontana. Ma pur sempre possibile. 

La regia e la sceneggiatura sono della tunisina Kawthar ibn Haniyya. La trama è nota: Il 29 gennaio 2024 gli operatori della sede della Mezzaluna Rossa di Ramallah, in Cisgiordania, ricevono la telefonata di Liyan Hamada, una quindicenne di Gaza intrappolata in macchina. Hind Rajab, sua cugina di cinque anni, è lì con lei, dopo che un carro armato dell’esercito israeliano ha trivellato l’auto uccidendo gli zii e i tre cugini. Quando anche Liyan viene uccisa. Hind, ferita alla schiena e alle gambe, prende il telefono. Per tre ore, gli operatori restano in contatto telefonico con lei, cercando di fare in modo che un’ambulanza la possa trarre in salvo. 

Kawthar ibn Haniyya parte da un audio di 70 minuti rintracciato in rete. La pellicola è costruita intorno alle parole della bambina. Per tutta la durata del film la scena non si sposta dalla sede della Mezzaluna Rossa di Ramallah. Hind e l’ambulanza fra loro distano 8 minuti di automobile. Per avere l’autorizzazione a coprire quelle poche centinaia di metri, ci vorranno oltre 270 minuti. Hind è ferita, non ha cibo, non ha acqua. Con gli operatori che cercano di intrattenerla durante quegli interminabili minuti mantiene una compostezza impressionate: dice che ha paura, dice che gli zii e i cugini si sono addormentati al suo fianco, dice che c’è sangue dappertutto, dice che non riesce a muoversi, dice che morirà se nessuno la tirerà fuori di lì, dice che gli spari non smettono, dice che il carro armato è a pochi metri da lei, dice che sta avanzando. Parla, racconta ma non scoppia mai in lacrime. A piangere, disperarsi, litigare sono gli operatori. La bambina è lì, ma non è possibile intervenire senza mettere a rischio la vita dei soccorritori. Ci vorrà un sacco di tempo e probabilmente non sarà sufficiente.  

Lei però non va in tilt. Nelle sue parole sono ferme, razionali e poi c’è quello che Hind non dice. Hind non parla mai dei suoi carnefici. Chiede aiuto, chiede di fare presto, chiede che qualcuno vada a prenderla, ma non chiede di fermare gli spari, di bloccare i cecchini, di colpire il carro armato che la sta investendo. Non maledice mai gli israeliani, non maledice mai la guerra (e nemmeno lo fanno gli operatori della Croce Rossa). Genocidio, massacro, strage: non sono queste le parole nella voce di Hind Rajab. Il pubblico ascolta. Ascolta la tragedia di una vittima. Non vittima palestinese, uccisa dagli israeliani. Vittima, senza dover aggiungere niente altro. In questo modo Kawthar ibn Haniyya lascia lo spazio a tutti noi di sentirci padri, madri, fratelli e sorelle di quella voce, di quella bimba di cinque anni, vittima incolpevole. Una bimba palestinese, ma anche tunisina, italiana, americana, russa, israeliana…Il passaporto non conta. La voce di Hind Rajab ci mette nudi di fronte al dolore dell’ingiustizia umana.  

Credit foto: ufficio stampa film

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