Sostenibilità

Lavoro, le Procure puntano le griffes ma l’Ue arretra sulle direttive

Ogni due per tre emerge un problema di rispetto dei diritti umani lungo la catena di fornitura delle aziende. Di recente sono finite sotto i riflettori importanti maison come Tod’s, Armani, Valentino bags lab, Loro Piana e Dior. Ma la questione non riguarda solo il fashion. Valeva davvero la pena che l’Europa mandasse all’aria le direttive che rafforzavano le responsabilità di controllo delle grandi aziende? Lo abbiamo chiesto a Fulvio Rossi, senior advisor di Avanzi, dove segue l’Osservatorio italiano imprese e diritti umani - Oiidu

di Nicola Varcasia

Siamo proprio sicuri che togliere le regole sulla sostenibilità aiuterà le imprese, la società e l’ambiente? Le istituzioni europee ne sono convinte. A meno di imprevisti clamorosi, Parlamento e Consiglio voteranno l’accordo che affossa le due direttive sulla rendicontazione, Csrd, e la dovuta diligenza, Cs3d. Per quest’ultima, si innalzano le soglie di applicazione alle grandi imprese con più di 5mila dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 1,5 miliardi di euro.

Dubbi, regole e attese

In attesa del testo definitivo che poi ogni stato dovrà ratificare si può però continuare a riflettere su che cosa c’è in gioco. Ad esempio, è notizia di qualche giorno fa la richiesta di amministrazione giudiziaria per Tod’s per presunti episodi di sfruttamento nella filiera di produzione. Proprio uno degli ambiti in cui la suddetta normativa imponeva controlli più rigidi. Nei mesi scorsi, per casi analoghi, sono finite sotto i riflettori di varie procure maison come Armani, Valentino bags lab, Loro Piana e Dior. La domanda, allora, sorge spontanea. La rivolgiamo a Fulvio Rossi, senior advisor di Avanzi, dove segue in particolare l’Osservatorio italiano imprese e diritti umani – Oiidu.

Se ci fosse stata la Csrd, le cose sarebbero andate diversamente?

Quello che è certo è che per la magistratura sarebbe stato molto più semplice arrivare a una conclusione di responsabilità dell’impresa.

Come mai?

In questi casi il percorso che porta i giudici ad avviare l’azione giudiziaria è piuttosto complesso e passa addirittura attraverso le normative antimafia. Alla fine, mettendo insieme tutti gli elementi, i giudici concludono che l’azienda non è penalmente imputabile, ma deve intervenire per correggere alcune lacune nei propri sistemi di controllo, che non sono riusciti a individuare le irregolarità presenti nella catena di fornitura.

Fulvio Rossi, senior advisor di Avanzi, al Salone della Csr 2025

Un procedimento così articolato, che oggi richiede molti passaggi, non sarebbe più necessario se fosse già applicata la direttiva Csrd.

Perché?

Sarebbe molto più evidente che l’impresa non ha messo in campo strumenti sufficienti per prevenire le violazioni. Di conseguenza, aumenterebbe la consapevolezza e la preoccupazione dell’azienda, spingendola a dotarsi di sistemi di controllo più efficaci.

Suona un po’ come una “minaccia”.

Se la vediamo da questo lato sì, la possibilità di incorrere in una sanzione spingerebbe le aziende a fare le cose meglio da questo punto di vista.

Che cosa pensa, dunque, dell’accordo raggiunto in Europa su questo tema, anche alla luce del vostro lavoro in Oiidu?

Credo che ci sia stata un’eccessiva marcia indietro. Tuttavia, penso anche che tali eccessi siano stati toccati in entrambe le fasi, sia nell’andata sia nel ritorno. Durante l’elaborazione delle due normative – la Csrd e la Cs3d – sono stati probabilmente inseriti troppi elementi, spesso troppo gravosi per le imprese. Il successivo cambio di assetto politico ha poi enfatizzato l’eccessiva complessità, con il risultato che, alla fine, sono state fortemente indebolite. La riduzione del campo di applicazione a imprese di dimensioni molto grandi, soprattutto per la Cs3d, ne è una chiara dimostrazione.

A che cosa serviva?

Quella direttiva era una chiara spinta a far calare una considerazione di sostenibilità dalle grandi imprese verso quelle piccole e medie, attraverso le catene di fornitura. Di quell’impianto è rimasto molto poco. Ma bisognerà vedere anche il testo finale.

Potrebbero esserci delle sorprese?

Sì, potrebbero esserci. Per esempio, nella parte in cui si limita il controllo delle grandi aziende al Tier 1, cioè ai soli fornitori diretti, si specifica anche che questo limite vale solo finché non emergano informazioni che facciano nascere dei dubbi. Questa formulazione apre un varco molto ampio e sarà quindi importante attendere la versione definitiva del testo.

Come andrà a finire?

Quel che è certo è che l’assenza di una responsabilità chiaramente definita a livello europeo – ad esempio per quanto riguarda le azioni correttive e il risarcimento dei danni – renderà l’applicazione delle norme più complessa. Ogni Paese avrà regole diverse e, senza un allineamento, i costi per le imprese varieranno da stato a stato. Ed è un vero peccato.

Con aziende che operano in più mercati, non rischia di essere un frazionamento poco sensato?

Sì, perché genera costi aggiuntivi e incertezze. Per tutelarsi, un’azienda che opera in più Paesi potrebbe scegliere di adottare la misura più rigorosa ovunque. Tenendo comunque conto delle differenze organizzative e normative dei vari stati. Proprio questo è uno degli aspetti che le direttive europee dovrebbero evitare: l’obiettivo dovrebbe essere creare un quadro armonizzato per tutti. È qui, secondo me, il punto mancante.

Al recente Salone della Csr ha coordinato un panel dal titolo significativo: “Senza aspettare la direttiva”. Che cosa è emerso?

È emerso che ci sono imprese che hanno già iniziato a svolgere analisi approfondite sulla propria catena di fornitura, affrontando la questione sia dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti, sia da quello del rischio reputazionale. Queste aziende si sono chieste, in concreto, che cosa possono fare per evitare che lungo la filiera si verifichino violazioni dei diritti o comportamenti scorretti. Molte di loro lo hanno fatto ben prima dell’arrivo della direttiva. Quando si adotta un approccio consapevole e responsabile, la regola passa in secondo piano. Forse la vera conclusione è proprio questa: dobbiamo tornare a parlare di volontarietà come motore del cambiamento.

Foto in apertura di Reza Erfanian su Unsplash.

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