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Mamdani nuovo sindaco di New York: il «socialista delle piccole cose» che sfida Trump
Zohran Mamdani è stato eletto primo cittadino con oltre un milione di voti. Per Mattia Diletti, professore di sociologia politica alla Sapienza di Roma, «la sua vittoria è una svolta, perché ha dato una risposta a domande latenti nella società». Il candidato democratico ha vinto con proposte concrete ma anche battendo il presidente sul suo terreno, quello della comunicazione mediatica: «Queste elezioni erano la prima possibilità di riscatto simbolico e lui è stato un nome credibile»
«Turn the volume up!». Agguerrito e compiaciuto, Zohran Mamdani ha festeggiato l’elezione a sindaco di New York mettendo già nel mirino la prossima battaglia: dimostrare a Donald Trump che il suo modello di Stati Uniti è fallimentare. In altre parole, spianare la strada alla riscossa elettorale dei Democratici nel futuro più e meno prossimo, alle elezioni di midterm del 2026 e alle presidenziali del 2028. «Se c’è qualcuno che può mostrare a una nazione tradita da Donald Trump come sconfiggerlo, è la città che gli ha dato i natali», ha detto davanti ai suoi sostenitori – che hanno scandito ogni frase con un’ovazione – subito dopo l’ufficialità della vittoria. «Donald Trump, so che mi stai guardando. Ho quattro parole per te: turn the volume up [alza il volume, ndr]!».
L’uomo giusto al momento giusto
Mamdani si è portato a casa oltre un milioni di voti, risultando il sindaco più votato dal 1969. Il neo-sindaco, che entrerà in carica il 1° gennaio, ha costruito il suo successo con proposte concrete che intercettano i bisogni reali dei cittadini: un mix tra competenza e opportunità, che più che un messia, come già alcuni sono pronti a dipingerlo, fa di lui il classico uomo giusto al momento giusto. «C’era, nel Paese e soprattutto a New York, una domanda che in Mamdani ha trovato un’offerta», riflette con VITA Mattia Diletti, professore di sociologia politica all’Università La Sapienza di Roma ed esperto di affari americani. «Lui ha avuto l’audacia, la capacità e la fortuna di riuscire a costruire questa offerta».
La campagna elettorale: risposte concrete a domande latenti
Musulmano, nato in Uganda, figlio di un professore e di una regista indiana, Mamdani, a 34 anni, è il più giovane sindaco della città da oltre un secolo. Il suo programma elettorale è riassumibile in una parola: «Affordability». L’obiettivo di Mamdani, fino a un anno fa un perfetto signor nessuno della politica statunitense, è trasformare New York da città da Paperoni in città accessibile a tutti. Come? Con affitti calmierati per due anni, supermercati comunali, autobus pubblici gratuiti, salario minimo a 30 dollari l’ora entro il 2030, asili nido universali, aumento della pressione fiscale per ricchi e super ricchi. Un «socialismo delle piccole cose», lo definisce Diletti. A definirsi socialista è lo stesso nuovo sindaco, che del resto si è avvicinato alla politica ascoltando, quasi dieci anni fa, Bernie Sanders. Iscritto al Partito democratico, Mamdani non ha battuto col 50,39% dei voti un candidato repubblicano, ma il compagno di squadra Andrew Cuomo (fermo al 41,6%), che dopo aver perso le primarie si è candidato da indipendente.
«La sua vittoria è una svolta, perché Mamdani ha avuto il merito di scongelare alcuni temi finora latenti nella società americana, soprattutto a New York e nelle grandi città. Si tratta di temi che riguardano la vita quotidiana: gli americani guardano al futuro con un timore dettato dalla preoccupazione per i salari, per la salute, l’istruzione», spiega Diletti. Se Mamdani è stato bravo a intercettare questi bisogni e a comunicare efficacemente le proprie proposte, dall’altro lato ha avuto la «fortuna» di rivolgersi a un elettorato – il ceto medio e le classi popolari, ma anche un ceto intellettuale anti-trumpiano – in questo momento senza un proprio campione politico. «Queste elezioni erano la prima possibilità di riscatto, anche mediatico e simbolico, per gli avversari di Trump», sottolinea Diletti, «e quello che serviva era un nome credibile».
La regola delle «tre M»
A pesare, nel successo di Mamdani, è stata soprattutto la sua strategia comunicativa. «Ha dimostrato talento, forse l’essere figlio di una grande regista gli ha insegnato qualcosa», scherza Diletti. Se forse buon sangue non mente, di certo Mamdani ha usato sapientemente i social, con video (anche in lingue diverse dall’inglese per raggiungere le minoranze linguistiche) dove comunica le sue idee e proposte oppure dove intervista i cittadini, chiedendogli quali sono per loro i problemi più pressanti. «È stato il primo a contendere alla destra il primato della comunicazione digitale e social, tra l’altro con successo», sottolinea ancora Diletti. «La sua campagna elettorale si regge su tre M: un messaggio cui rimanere ancorati, cioè l’affordability, una forte presenza sui media e la creazione di un movimento. Mamdani ha costruito una rete di 90mila volontari che sono andati a bussare a tre milioni di porte: un movimento impressionante, senza cui è impossibile creare qualcosa che duri nel tempo».
Il nuovo volto della sinistra e il futuro di Trump
Il tempo dirà quanto del proprio programma Mamdani riuscirà a realizzare. «Credo che sull’aumento delle tasse per i ricchi farà fatica, perché deve passare dal governo dello Stato di New York e lì ci sono in ballo interessi più grandi. In generale», analizza Diletti, «sarà ossessionato dal tema del delivery, cioè del fare ciò che ha promesso, perché altrimenti ci sarebbe un rinculo contro di lui. Su alcuni fronti magari sarà stoppato da possibili ricorsi presentati dall’amministrazione Trump, ma in questo caso avrà gioco facile nel dire che non è colpa sua se non ha fatto qualcosa ma che sono stati gli altri a fermarlo».
Intanto, Mamdani è già il nuovo idolo della sinistra, statunitense e internazionale. «È già un’icona mondiale. Ha rotto la cappa trumpiana col suo stile comunicativo e ha fatto uscire i democratici dall’angolo in cui si erano confinati anche a causa del wokismo e di quell’atteggiamento di voler fare la lezione all’elettorato trumpiano dicendo che sbaglia», spiega Diletti. Attenzione, però, a credere che per questo l’anti-trumpismo abbia perso il suo valore politico per la sinistra statunitense. In New Jersey e in Virginia le candidate governatrici democratiche Mikie Sherrill e Abigail Spanberger hanno vinto – con margini più alti delle precedenti affermazioni elettorali dei Democratici – soprattutto grazie alla retorica contro il presidente. Lo stesso vale per il referendum promosso dal governatore democratico della California, Gavin Newsom, sul ridisegnamento dei distretti elettorali. Insomma, per ora l’avvento sulla scena di Mamdani «più che una rivoluzione è un cambio di tendenza», commenta Diletti.
E Trump? Dopo la sconfitta dei suoi candidati – a New York il repubblicano Curtis Sliwa ha raccolto un misero 7,11% – il presidente si lecca le ferite senza però assumersi le responsabilità. Sul suo social, Truth, Trump spiegato la sconfitta col fatto che il suo nome non compariva sulle schede elettorali e con lo shutdown, cioè il blocco delle attività amministrative dovuto al fatto che il Congresso non riesce ad approvare la legge di bilancio. «In questo momento, a essere intransigenti sulla spesa pubblica, frenando l’approvazione, sono i repubblicani e Trump potrebbe decidere di allentare la presa visto che ritiene di essere stato penalizzato per questo», conclude Diletti, «ma credo che la sua strategia di risposta alla vittoria di Mamdani sarà quella di mostrare i muscoli e polarizzare lo scontro». Del resto, nella base dell’elettorato trumpiano gira un meme con due immagini: da un lato il «Piano A», con le Torri Gemelle in fiamme, dall’altro il «Piano B», con Mamdani esultante dopo l’elezione. Un riferimento alla fede religiosa del nuovo sindaco e di un supposto annientamento culturale degli Stati Uniti.

Mamdani ha lanciato la sfida, pur sapendo che non potrà mai sfidare direttamente Trump – che del resto non può ricandidarsi nel 2026 – perché non essendo statunitense di nascita ma naturalizzato non può correre per le presidenziali, ma può diventare l’uomo forte del Partito in grado di contendere il primato mediatico al tycoon. Staremo a vedere.
Foto AP/Yuki Iwamura/LaPresse
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