L'operatore di bassa soglia

«Nessuno salva nessuno»: la prima regola per l’operatore a bassa soglia

Veronica ha 44 anni, vive a Rovereto e lavora come educatrice per la cooperativa sociale “Punto d’Approdo”, da tre anni nell’Unità di Strada che si occupa di sex worker. «Prima le chiamavo prostitute in maniera negativa, poi ho capito che sbagliavo ed ero piena di pregiudizi verso un mondo che è complesso. Il mio scopo non è far cambiare vita alle persone che incontro in strada, ma renderle consapevoli dei loro diritti e dei servizi sul territorio»

di Chiara Ludovisi

«Io non devo salvare nessuno. E nessuno deve essere salvato: questa è la prima e forse l’unica certezza che abbiamo in questo lavoro. Il “bidone” fa parte del mestiere: ne ricevo tanti e ho imparato a non rimanerci male». Veronica (preferisce non dire il suo cognome, per il lavoro che fa la riservatezza è importante) ha la statura e la determinazione di chi è abituato a lavorare in strada. Segnata dai “bidoni”, come li chiama lei, ha imparato a farci i conti. Perché in fondo, «le persone per cui ti fai il mazzo hanno tutto il diritto di rifiutare la tua presenza. E a volte anche di mandarti a quel paese».

Le persone per cui Veronica «si fa il mazzo», oggi sono le “sex worker” (al femminile solo perchè intese come persone): prima di fare questo lavoro le chiamava “prostitute”, poi ha capito che sbagliava e non solo per la parola che usava, ma per le tante idee che questa parola si portava dietro. Primo, che fossero tutte – o per lo più – donne, «mentre ci sono tanti uomini e tanti trans, che fanno questo lavoro». Secondo, «che le prostitute fossero o donne che scelgono un modo brutto di usare il proprio corpo, oppure povere disgraziate, che vengono sfruttate, legate e picchiate. Certo, queste due categorie esistono, ma rappresentano forse il 2% di questo mondo. Il 98% di queste persone sono semplicemente “normali”: ci sono uomini, donne e trans, sono per lo più maggiorenni, dai 18 fino ai 70 anni, molti hanno marito o moglie, a volte figli e non tutti sono poveri. Ridono, piangono, fanno progetti».

Veronica prepara il materiale

Veronica ha 44 anni e da molti anni è educatrice professionale: ha lavorato a lungo con la disabilità e nelle case di riposo, prima di essere inserita, tre anni fa, nell’unità di strada “Aquilone”, a cui la cooperativa sociale “Punto d’Approdo” di Rovereto ha dato vita proprio per occuparsi dei sex worker. Oggi è, tutti gli effetti, un’operatrice “a bassa soglia”: la terza di cui raccontiamo, in questa serie di ritratti che VITA sta dedicando, dal 16 ottobre, a chi si fa questo lavoro complesso, delicato, difficile ma sfidante e capace di smascherare tanti luoghi comuni su quei “margini” in cui spesso il terzo settore è chiamato a intervenire.

E di luoghi comuni, Veronica ne smonta uno dopo l’altro, mentre ripercorre i suoi primi passi all’interno di questa unità di strada. «All’inizio ho fatto molta fatica, perché venivo dal lavoro in comunità, che è un contesto molto diverso. Piano piano, ho capito che era questo il lavoro per me. E così ho ricominciato a studiare, a informarmi e soprattutto a passare molto tempo con queste persone, abbandonando ogni pregiudizio e ogni giudizio».

Parliamo di persone stigmatizzate e invisibili: come prima cosa, devono sapere che noi ci siamo e che siamo disponibili anche solo per una chiacchierata al bar. Il primo obiettivo è creare una relazione di fiducia, per capire chi abbiamo davanti e di cosa possa avere bisogno

Il lavoro nell’unità di strada è fatto principalmente di incontri: «Andiamo a cercare le persone che fanno lavoro sessuale sia in strada che indoor. A volte le contattiamo telefonicamente, grazie agli annunci che troviamo online. Quello che facciamo è molto semplice, ma fondamentale: spieghiamo chi siamo, cosa facciamo e i servizi che possiamo offrire loro, se ne avessero bisogno. Parliamo di persone stigmatizzate e invisibili: come prima cosa, devono sapere che noi ci siamo e che siamo disponibili anche solo per una chiacchierata al bar. Il primo obiettivo è creare una relazione di fiducia, per capire chi abbiamo davanti e di cosa possa avere bisogno».

Regola n. 1: nessuno salva, nessuno è da salvare

L’obiettivo non è in alcun modo far cambiare vita a queste persone: questo è forse il più importante dei luoghi comuni che Veronica ci tiene a sfatare. «Noi forniamo le informazioni e il materiale che permettano a queste persone di fare ciò che fanno in sicurezza e nel rispetto dei propri diritti. Oltre a materiale informativo, consegniamo lubrificanti, contraccettivi, salviette intime. A meno che non siano loro a chiederlo, noi non le aiutiamo a cambiare vita, non interveniamo sulla loro scelta e soprattutto non la giudichiamo. Qualsiasi cosa decidano di fare, il nostro obiettivo è aiutarle a far valere i propri diritti. Non dobbiamo salvare proprio nessuno e questo deve esserci molto chiaro», afferma Veronica. 

Questa è, insomma, la regola numero 1.

Regola n. 2: essere solo il primo anello

Tessere legami, questo sì, gli operatori di bassa soglia devono farlo continuamente: in particolare, con i servizi sul territorio, rispetto ai quali loro rappresentano un primo anello di congiunzione. «Noi abbiamo rapporti con tutti i servizi territoriali, sia pubblici che privati: possiamo quindi creare il contatto e indirizzare le persone all’ufficio di cui ha bisogno, anche solo per fare documenti che spesso non hanno. Parliamo di persone che vivono nella solitudine totale e spesso non sanno neanche dell’esistenza di alcuni diritti e opzioni. Il nostro compito è renderle consapevoli delle diverse risorse che esistono per loro».

L’unità di strada

Questo per evitare quello che in molti casi accade e che prende il nome di sfruttamento secondario: «Anche chi ha scelto di fare questo lavoro – perché alcuni lo scelgono, non tutti sono obbligati a farlo – spesso non conosce i propri diritti e quindi finisce per essere sfruttato. L’esempio più frequente è quello della donna senza documenti che volesse fare un’interruzione di gravidanza: non sapendo dell’esistenza del consultorio, spesso finisce per rivolgeresi alle persone sbagliate». 

Limitarsi ad essere un anello, il primo anello della catena: ecco la regola n. 2

Regola n. 3: il bidone non fa male

Non sempre è facile, anzi spesso non lo è affatto. E in molti casi la delusione e la frustrazione sono in agguato: «Alcune accettano subito il mio aiuto, altre non si fidano per niente. Alcune, al telefono, mi chiedono di poter fare una videochiamata per vedermi in faccia, altre mi chiedono dati e informazioni su di me, per essere sicure di potersi fidare. Alcune mi mandano semplicemente a quel paese. E io sono preparata, so che questo può accadere, ma so anche che devo fare il possibile perché non accada: se una persona mi allontana e rifiuta il mio aiuto, rinuncia a un servizio che potrebbe esserle utile per migliorare la propria vita». 

E poi ci sono i famosi “bidoni”, che «possono demotivare chi fa il mio lavoro: io posso parlare con una persona 75 volte, essere sicura di averne conquistato la fiducia, sentire che si è creato un rapporto e poi essere bidonata 75 volte da quella stessa persona! Sì, questo può demotivare, ma stranamente al tempo stesso è ciò che mi motiva a continuare: prima o poi, la persona mi fa sentire che il mio lavoro è importante, anche se rifiuta il mio aiuto». 

Eccolo quindi, il terzo “segreto del mestiere”: non lasciare che un “bidone” faccia male, ma considerarlo parte del gioco. 

Regola n, 4: abbracciare ma poi lasciare

Esiste poi una giusta distanza, che bisogna sapere mantenere: «Io abbraccio e coccolo, ma quando chiudo, chiudo», spiega. «Difficilmente tengo acceso il telefono di servizio fuori dal mio orario. Certo, qualche storia me la porto a casa, ma cerco sempre di evitarlo. Sono seguita a livello psicologico, tramite la cooperativa. Credo che questo sia fondamentale per chi lavora con le persone».

Il podcast “Voci dal silenzio”

La regola d’oro: conoscere e non giudicare

E poi c’è la regola d’oro: non giudicare nessuno. «Neanche il cliente», precisa Veronica. «Per non giudicare, bisogna conoscere molto bene: leggere tanto, parlare moltissimo. Il mio essere donna, peraltro lesbica, mi è di aiuto in questo. Ma serve anche una formazione costante. Per questo, in ufficio abbiamo creato una libreria che chiamiamo “Colorata”, piena di libri che parlano di prostituzione e di tutto quello che gira intorno a questo mondo. Non è facile trovare questi volumi in giro: su altri temi – la disabilità, la salute mentale, gli anziani – si trova tanta letteratura, ma la prostituzione si trova solo nelle cronache, difficilmente negli studi e nei libri di testo. Per questo, abbiamo dato vita anche a un podcast, che si chiama “Voci dal silenzio”: raccogliamo una storia, la scriviamo, poi la mandiamo ai protagonisti perché ci dicano se va bene, o se dobbiamo cambiare qualcosa. C’è anche la mia storia: ho raccontato come sono cambiata da quando lavoro nell’unità di strada, cosa ho imparato, come ho vissuto sulla mia pelle il non capire e poi il capire. Che è quello che mi permette di continuare a fare e ad amare questo lavoro».  

Nella serie dedicata agli operatori di bassa soglia, puoi leggere anche:

– Vivere la strada come la casa d’altri, con Fabrizio Schedid, responsabile di Binario 95 e dell’unità di strada Help Center Mobile di Roma

Improvvisare senza improvvisazione: la sfida di lavorare con i minori stranieri che vivono in strada, con Rodolfo Mesaroli, psicologo, direttore scientifico e vicepresidente di CivicoZero Onlus di Roma

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