Cooperazione

Per le persone con disabilità scappare da una guerra è impossibile: «Servono aiuti umanitari inclusivi»

La ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli ha annunciato la nascita di una rete per aiutare i bambini di Gaza con disabilità e gravi patologie; ne fanno parte il Serafico di Assisi, l’associazione La Nostra Famiglia e la Protezione Civile. Francesca Di Maolo, presidente del Serafico di Assisi, spiega le difficoltà aggiuntive che le persone con disabilità incontrano nei contesti di guerra e di emergenza: «Anche i corridoi sanitari lasciano fuori chi ha bisogno di una presa in carico sociosanitaria. La priorità è che tutto l’umanitario si attrezzi, dai mezzi di soccorso ai campi profughi»

di Chiara Ludovisi

Da Gaza all’Ucraina, dal Sudan al Kosovo, passando per l’Italia e le sue calamità: nell’emergenza, così come nei conflitti, «chi ha una disabilità è vittima due volte e vive, di fatto, una guerra nella guerra». Francesca Di Maolo ha l’esperienza e la lucidità di chi ha incontrato e ascoltato tante storie di disabilità, all’interno dell’Istituto Serafico di Assisi, di cui oggi è presidente. Una struttura di eccellenza che si occupa di bambini e giovani con disabilità fisiche, psichiche e sensoriali gravi e complesse, offrendo percorsi di cura, riabilitazione, educazione e inclusione sociale.

L’Istituto è stato coinvolto dalla ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli nella rete istituita con lo scopo di aiutare e sostenere i bambini di Gaza con disabilità e gravi patologie. Della rete fanno parte anche l’associazione La Nostra Famiglia e la Protezione Civile. 

Delegazione dell’Istituto Serafico all’Onu

Ma quali sono gli strumenti e le strategie per garantire supporto e assistenza alle persone con disabilità – in particolare ai bambini – in contesti di guerra e devastazione come quello di Gaza? «Possiamo intanto dire che il tema finalmente è stato posto e credo di poter dire che sia la prima volta che viene aperto un confronto e un tavolo di lavoro specifico su questo», commenta Di Maolo. «Il solo fatto che la ministra per le Disabilità sia chiamata a presiederlo mi sembra un ottimo segnale», aggiunge. 

Qual è il tema?

La protezione dei fragili e delle persone con disabilità nei conflitti armati. L’Istituto Serafico non ha un’esperienza sul campo, non è presente nelle zone dei conflitti, interviene sempre nel passaggio successivo. Negli anni, tuttavia, abbiamo raccolto tante storie, che ci hanno offerto molti spunti e indicato, nel tempo, una direzione. Per esempio sono passati da noi alcuni bambini ucraini, arrivati dopo il crollo di un ospedale a Kyiv. Abbiamo visto e ascoltato i loro racconti, ma al tempo stesso abbiamo approfondito il tema grazie alle analisi di organizzazioni come Amnesty International.

Cosa avete scoperto?

Innanzitutto, che c’è chi dalla guerra non può scappare. Tante persone non riescono neanche a raggiungere i rifugi, o perché con la carrozzina non possono muoversi tra le macerie, o perché sono allettate e attaccate a un respiratore, o perché hanno un disturbo del comportamento ed entrano in uno stato di confusione totale quando c’è un bombardamento. Non possono mettersi in salvo. E accanto loro restano, naturalmente, i caregiver, quasi sempre le mamme. A queste persone e ai loro bisogni difficilmente si pensa, quando si interviene nei contesti di guerra. Ma a cui invece deve essere rivolta un’attenzione particolare, mettendo in campo tutte le accortezze di cui hanno bisogno.

È quello che si dice, in generale, nei soccorsi durante le emergenze, anche qui in Italia: pensiamo ai terremoti, o alle alluvioni…

Esattamente, sono contesti diversi ma in cui le disabilità e le fragilità sono spesso invisibili e trascurate. Per esempio, da chi è a Gaza in questo momento ci chiedono soprattutto pannoloni per le persone con gravi disabilità. Perché lì non se ne trovano e sono costretti a usare i vestiti dei cadaveri. Sono urgenze a cui chi non conosce da vicino questo mondo difficilmente pensa. Penso anche alle miscele nutrizionali per chi si alimenta artificialmente. Ricordo due bambini ucraini che arrivarono da Kyiv in un’auto tutta impolverata. Ci spiegarono che da loro non si trovavano più miscele nutrizionali e quando se ne trovavano erano  di dubbia composizione. In effetti, abbiamo analizzato le sacche nutrizionali che avevano con loro e il contenuto era per lo più a base di caffeina… Nei contesti di guerra, per gli aiuti medici e sanitari pensiamo sempre ai farmaci di emergenza, ma non agli antiepilettici, gli antidepressivi e le miscele nutrizionali, che sono vitali per tante persone con disabilità. 

Francesca Di Maolo

E poi c’è il tema dell’accessibilità…

Certo, questa è un’altra questione cruciale. I mezzi di evacuazione, per esempio, non sono mai accessibili. Questo significa che chi è in sedia a ruote, o peggio ancora allettato, semplicemente non può andarsene. E poi servono non solo gli ausili, ma anche l’energia per alimentarli, oltre al personale formato. Senza dimenticare i caregiver, la cui sorte è strettamente legata a quella della persona di cui si prendono cura. 

Ritiene che intorno a questo tema si stia sviluppando una nuova sensibilità? 

A dire il vero, questo tema era già accennato nella Convenzione Onu sulla disabilità ed è stato ripreso in un recente protocollo della Croce Rossa italiana. Un’attenzione maggiore si è avuta però solo con la Carta di Solfagnano, nata esattamente un anno fa  nell’ambito del G7 Disabilità e inclusione. Il punto 8 riguarda proprio la prevenzione e la gestione delle emergenze. Un altro momento di grandissima importanza per lo sviluppo di questa attenzione è stato il 3 ottobre scorso, quando il ministero degli Esteri, insieme alla Sioi e con Croce Rossa Italiana ha organizzato un incontro proprio sul tema della “Protezione internazionale delle persone vulnerabili nel conflitti armati”, con focus sulle donne e sulle disabilità. Lì abbiamo ascoltato molti racconti ed è diventata evidente l’esigenza di arrivare a protocolli concreti per costruire e assicurare un aiuto umanitario inclusivo.

In altre parole, la sfida non è prendere in carico qui le persone con disabilità provenienti da Gaza (o da altri conflitti), quanto piuttosto costruire lì un sistema di presa in carico?

Sì, partendo da una consapevolezza: le persone con disabilità hanno non solo bisogni sanitari, ma sociosanitari. Per questa ragione, di fatto sono difficilmente inclusi nei corridoi umanitari, che invece si rivolgono a chi ha bisogno di un intervento sanitario puntuale dal quale derivano delle “chance”, per così dire. Le chance delle persone con disabilità non sono invece legate a un ricovero, o a un tervento. Per questo, di fatto, non escono tramite i corridoi sanitari. Occorre che si attrezzino gli aiuti umanitari, a partire dai mezzi di soccorso e dai campi profughi: una strada complessa, ma penso sia l’unica strada possibile.

Voi avete comunque dato la vostra disponibilità ad accogliere bambini e bambine con disabilità che dovessero arrivare da Gaza?

Sì, abbiamo anche indicato con chiarezza che ci faremmo eventualmente carico della rete sociosanitaria necessaria per rispondere alle esigenze di questi bambini. Come noi, anche La Nostra Famiglia ha offerto la propria disponibilità. Non sappiamo se e quando saremo coinvolti, ma siamo pronti a fare la nostra parte. Si tratta di una piccola parte, per piccoli numeri. Quello che va fatto, su grande scala e a lungo termine, è rendere inclusivo tutto l’aiuto umanitario, adottando questa nuova visione e avvalendosi anche di strumenti innovativi come i teleconsulti, che stiamo sperimentando con successo in altri contesti. 

Foto apertura Unsplash (Alejandro Ortiz). Foto interne fornite dall’intervistata

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