7 ottobre, due anni dopo

Perché dobbiamo ritrovare uno spazio di comprensione per le vittime del 7 ottobre

Helena Janeczek, scrittrice, è nata in Germania da genitori ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti: «Anche in Israele c'è chi ritiene che gli ostaggi non possono essere sacrificati, che la vita umana viene prima della terra. Il governo di Netanyahu invece sul punto ha una posizione del tutto speculare a quella di Hamas: le vittime del 7 ottobre erano una minoranza che è stata ritenuta sacrificabile. L'odio però fa vivere male e contrasta con la voglia di vita e di futuro che tutti abbiamo: rispondere al desiderio di vita è il solo modo per spegnere l'odio e non esserne dominati in futuro»

di Chiara Ludovisi

manifestazione a gerusalemme

«Chi oggi voglia avere una posizione di pace e di giustizia e difendere i diritti umani e internazionali, dovrebbe avere uno spazio di comprensione e compassione anche per ciò che accaduto due anni fa, il 7 ottobre 2023 e per gli ostaggi israeliani e le vittime di Hamas». Helena Janeczek, scrittrice, vincitrice del premio Strega nel 2018 con il libro La ragazza con la Leica, è nata in Germania da genitori ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Sa cosa significhi essere vittime, prigionieri, ostaggi, vivere le persecuzioni e il genocidio. 

Eppure, nonostante le ferite che la sua famiglia porta incise nella pelle e nella memoria, il suo sguardo è lucido, ampio, profondo, mentre prova a leggere ciò che sta accadendo ai giorni nostri a Gaza e a dare un senso alla ricorrenza di oggi. All’alba di due anni fa gruppi di miliziani armati si scagliarono contro villaggi e kibbutz israeliani vicini al confine con Gaza: un attentato con quasi 1.200 morti e 251 persone rapite e portate nei tunnel che Hamas aveva realizzato nella Striscia. Dei 251 ostaggi israeliani, 148 sono tornati vivi in Israele, quasi tutti grazie a scambi di prigionieri con Hamas. Attualmente Hamas detiene ancora 48 ostaggi, di cui 20 presumibilmente vivi.

«La società israeliana non si riconosce nella disponibilità del governo di Netanyahu a sacrificare gli ostaggi, frutto di una visione fondamentalista etico religiosa, per cui prima di tutto viene la terra, mentre gli esseri umani sono sacrificabili. Una visione del tutto speculare rispetto a quella fondamentalista di Hamas».

Comprensione e compassione per gli ostaggi e le vittime del 7 ottobre 2023, quindi, che nella giornata odierna è più che mai giusto ribadire. Senza però dimenticare al tempo stesso l’enorme numero di morti provocato dalla reazione di Israele: «I media israeliani stanno facendo quello che è tipico delle realtà fortemente nazionalistiche: mandano continuamente in onda le immagini e le storie del 7 ottobre, spalmando ovunque il paragone con la Shoah, guardando solo alle “proprie” vittime e definendo tutti gli altri nazisti. A questa disumanizzazione ideologica – dove i nazisti sono “il Male” – si accompagna quella “classica” che consiste nel definire “animali” il proprio nemico collettivo. Tutto questo, mentre un mondo vastissimo vede e si indigna per la sofferenza degli abitanti di Gaza, in particolare dei bambini, vittime innocenti per eccellenza. È il meccanismo tipico delle guerre moderne: il disconoscimento, lo svilimento dell’umanità del nemico, che legittima e giustifica l’impressionante e ingiustificabile numero di vittime civili», spiega ancora Janeczech.

Linsuperato e insuperabile Primo Levi diceva che i tedeschi fossero “educati male”. Oggi, io sono sgomenta di fronte all’esito della “cattiva educazione” della società israeliana. Questa cattiva educazione ha prosperato grazie all’erezione di muri reali e simbolici e al boicottaggio, da entrambe le parti, di ogni prospettiva di uscita da questo braccio mortale che non andasse verso lannientamento dell’altro

Helene Janeczek, scrittrice

Ma com’è possibile conservare uno sguardo “umanistico” quando fin da piccoli si è educati a vedere l’altro come il nemico e l’assassino, privo di ogni sembianza umana? Perché questo pare accada in Israele e in Palestina e di questa educazione sia frutto il tanto odio reciproco che oggi vediamo. «Sicuramente io ho il privilegio della distanza, per cui per me è più facile conservare uno sguardo umano sul popolo palestinese. Soprattutto, però, io come tanti altri abbiamo fatto nostro il sentimento e il postulato del “mai più per nessuno” anziché del mai più per noi”: dopo la Shoah, ci siamo detti che non ce ne sarebbe dovuta essere mai unaltra. Nessun genocidio, anzi nessuna disumanizzazione, per nessun altro. Su questo postulato, però, il piccolo mondo ebraico si è diviso in modo sempre più marcato. Linsuperato e insuperabile Primo Levi diceva che i tedeschi fossero “educati male”. Oggi, io sono sgomenta di fronte all’esito della “cattiva educazione” della società israeliana. Questa cattiva educazione ha prosperato grazie all’erezione dei muri, reali e simbolici e al perdurante boicottaggio, da entrambe le parti, di ogni prospettiva di uscita da questo braccio mortale che non andasse verso lannientamento dell’altro. Queste sono le logiche che hanno prevalso e che hanno portato al 7 ottobre».

La scrittrice Helena Janeczek

Dall’annientamento del nemico al “suicidio” di Israele

Il 7 ottobre 2023 è stata quindi una delle massime espressioni di questa logica dell’annientamento, ma ciò che ne è seguito ha paradossalmente spento le voci delle vittime di quel giorno e di chi ancora si trova nelle mani di Hamas. «La reazione di Israele non ha veramente operato per la “sconfitta di Hamas” o la difesa dei confini, ma piuttosto ha colto l’occasione per realizzare la “grande Israele”, dal fiume al mare. Per questo è sfociata in genocidio. Se le scelte fossero state altre, il ricordo del massacro del 7 ottobre, con le vittime innocenti di quel giorno e la presa degli ostaggi, avrebbe continuato a scuotere il mondo, a suscitare empatia. Ma annientando indiscirminatamente Gaza e i suoi abitanti, si è invece innescato  quello che Anna Foa chiama giustamente il suicidio di Israele».

Le vittime del 7 ottobre, dobbiamo dirlo, erano una minoranza che è stata abbandonata. O almeno è stata ritenuta sacrificabile

Helena Janeczek

C’è poi una riflessione sugli ostaggi e sulle vittime del 7 ottobre, che difficilmente fa parte della narrazione e la memoria di quel giorno, ma che Janeczeck vuole evidenziare: «Quelle vittime e questi ostaggi non suscitano particolare simpatia da parte dell’attuale governo di Israele: erano persone che credevano nella pace e nella giustizia e si impegnavano attivamente per la riconciliazione. Mentre loro venivano crudelmente attaccate da Hamas, l’esercito israeliano era impegnato nella difesa degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania. Le vittime del 7 ottobre, dobbiamo dirlo, erano una minoranza che è stata abbandonata. O almeno è stata ritenuta sacrificabile».

Quali speranze restano allora, perché si trovi un accordo o perfino una riconciliazione e finalmente la pace?

Non sono molto ottimista in questo momento. Assistiamo al drammatico ritorno della legge del più forte, che non è una legge. Dobbiamo tutti impegnarci per ciò che è il suo contrario, ovvero il riconoscimento dell’umanità di ciascuno e del diritto di ricostruire sulle macerie, con l’aiuto del resto del mondo».

Una prospettiva che in questo momento sembra lontana…

La storia e la vita mi hanno insegnato che un Paese può sempre cambiare. Io sono cresciuta, per ironia della sorte, nella terra di coloro che hanno architettato la soluzione finale. Quella che ho conosciuto è una Germania molto diversa e migliore di quella che aveva invaso la terra dei miei genitori, per schiavizzare i polacchi e annientare gli ebrei: intere generazioni si sono allontanate dalla radice del nazismo, nella scuola ci insegnavano il valore della disobbedienza, della resistenza, del pensare con la propria testa. Lo stesso vale per la Serbia: un Paese in cui il nazionalismo feroce, basato e alimentato dall’uso vittimistico della memoria, oggi è attraversato da grandi proteste di giovani che vogliono altro.

Anche in questo momento, in Israele c’è una minoranza che si oppone al sentire comune della nazione, che denuncia con forza crescente ciò che accade a Gaza. Tante forme di “no” che parlano di un Israele diverso, così come gruppi di israeliani e palestinesi che lavorano insieme per la convivenza e si oppongono fisicamente alle ingiustizie e le violenze subite dai palestinesi. A queste persone dobbiamo dare il massimo sostegno

Vuol dire che anche Israele può cambiare?

Primo Levi ci ha insegnato che è troppo facile pensare che un gruppo rappresenti per sempre il male assoluto. Ci sono processi dolorosi e lenti, che possono portare a grandi cambiamenti. Anche in questo momento, in Israele c’è una minoranza che si oppone al sentire comune della nazione, che denuncia con forza crescente ciò che accade a Gaza: persone che compiono azioni di sconfinamento e di rottura del blocco, riservisti che non si presentano, giovani che rifiutano il servizio militare, tante forme di “no” che parlano di un Israele diverso, così come gruppi di israeliani e palestinesi che lavorano insieme per la convivenza e si oppongono fisicamente alle ingiustizie e le violenze subite dai palestinesi. Sono persone che sanno da che parte stare, sanno di essere privilegiate e sanno usare bene il proprio privilegio. Penso che a queste persone dobbiamo dare il nostro massimo sostegno.

E dai palestinesi, possiamo aspettarci qualcosa di diverso dall’odio perenne che deriva dall’essere vittime a cui viene negata l’umanità stessa?

Quello che posso dire è che il desiderio di vivere è una leva fortissima, per cui bisogna innanzitutto creare condizioni di vita dignitosa. Qualcuno dice che abbiamo seminato odio per cento anni: può essere vero, ma io credo e ho sperimentato che l’odio è facile da scatenare e seminare, ma è una pianta che va continuamente innaffiata, perché tende ad appassire. Perché l’odio fa vivere male e contrasta con il desiderio di vita, di futuro, di pace. Rispondere a questo desiderio di vita è l’unico modo per spegnere l’odio e non esserne dominati in futuro. Ma deve essere pace, non pacificazione: e la pace si basa sul riconoscimento, che porta alla giustizia riparativa. Un processo lungo, che tutti noi dobbiamo contribuire a costruire, opponendoci ai piani che neghino l’esistenza di un popolo e trasformino la sua terra in un resort. Riconoscimento e giustizia sono l’unica speranza per un futuro di pace, in cui piano piano si rimarginino le ferite dell’odio.

Foto fornite dall’intervistata. In apertura, manifestazione a Gerusalemme per chiedere il rilascio degli ostaggi (AP Photo/Ohad Zwigenberg)

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