Sharenting
Quando l’influencer è mamma o papà
I figli compaiono in un contenuto su due e risultano parte attiva in un terzo dei messaggi pubblicitari dei family influencer. Lo dice un’indagine realizzata da Terre des Hommes Italia e Università Cattolica su un campione di 20 account. Federica Giannotta, responsabile advocacy e programmi Italia Terre des Hommes: «Il coinvolgimento dei minori nelle attività pubblicitarie e commerciali social dei genitori va equiparato alle altre forme di lavoro minorile ammesse dalla legislazione italiana»
Cucinano, giocano, leggono. Intanto, dallo schermo di uno smartphone, un mondo più o meno grande li osserva. Sono i figli dei family influencer, creatori di contenuti social che nella genitorialità trovano il filone principale di racconto. È dedicata a loro la ricerca Protagonisti consapevoli? La tutela dei minorenni nell’era dei family influencer, frutto della collaborazione tra Terre des Hommes Italia, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria e Almed – Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, con il supporto dell’avvocata Marisa Marraffino, esperta di diritto dei media digitali e la partnership tecnica di Not Just Analytics.
Tre realtà che contribuiscono alla promozione e alla tutela dei diritti fondamentali delle persone, in particolare di bambini, bambine e adolescenti, si sono attivate per porre l’attenzione e rispondere a un’esigenza di regolamentazione su una pratica comune che abbiamo imparato a chiamare sharenting, ovvero la condivisione online di immagini e informazioni di figli e figlie da parte delle mamme e dei papà. «L’obiettivo non è puntare il dito contro singoli account», sottolinea Elisabetta Locatelli, ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano che ne ha coordinato il monitoraggio scientifico, «ma sensibilizzare su nuove forme di violazione dei diritti dei bambini rese possibili dagli strumenti digitali, creare più consapevolezza e dare evidenza dei rischi».
I bambini? Una presenza quotidiana
L’indagine, che è stata presentata questa mattina alla presenza della senatrice Simona Malpezzi e dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Marina Terragni, prende le mosse dai dati già raccolti dal monitoraggio Iap 2024 e da un precedente studio di Terres des Hommes Germania. Da qui, la decisione di realizzare uno spin off di analisi su un campione di 20 family influencer e 1.334 contenuti social postati tra il 26 giugno e il 10 luglio 2025: mamme e papà che abitualmente mostrano i figli sui propri profili, ma anche account di minori gestiti dai genitori.
Che cosa emerge? I figli appaiono in un contenuto organico (puro racconto senza messaggio pubblicitario) su due e in uno sponsorizzato su quattro. In un terzo circa dei contenuti pubblicitari, i bambini e le bambine risultano essere parte attiva dell’advertising: ad esempio scartano il prodotto, lo presentano, lanciano la promozione. Nella maggior parte dei contenuti in cui appaiono minori, inoltre, non sono adottate forme di tutela della privacy per i più piccoli, come riprese di spalle, immagini pixellate o l’aggiunta di emoticon sul viso. Nei contenuti organici, le forme di tutela compaiono nel 7% dei contenuti e la percentuale si abbassa al 2% se si considerano i contenuti pubblicitari.
Nel 29% dei contenuti si riscontrano situazioni potenzialmente problematiche rispetto alla privacy: nel 21% dei casi sono mostrati momenti intimi come il bagnetto, il cambio del pannolino, la nanna. Nel 6% il minore è coinvolto in trend o challenge; nel’1% dei casi il minore è colto in un momento critico (rabbia, tristezza, difficoltà).
Conferme e qualche sorpresa
«Il dato che mi aspettavo, confermato dal monitoraggio, è la presenza frequente dei minori nei contenuti (nel 46% dei casi, ndr)», spiega Locatelli. «Quello che non mi aspettavo e su cui credo valga la pena aprire una riflessione riguarda l’engagement rate dei post e dei reel: la presenza dei figli non fa necessariamente aumentare le visualizzazioni e i “mi piace”. Ma il loro coinvolgimento è un elemento chiave del successo dell’influencer, in quanto crea vicinanza con il pubblico, trasmette emozioni, permette di entrare nella quotidianità di quei bambini».

Soltanto nello 0,65% dei contenuti il minore si oppone esplicitamente alla ripresa, ma nel 63% dei casi bambini e bambine si vedono sullo sfondo delle scene dei genitori, senza quindi probabilmente la piena consapevolezza di essere ripresi a loro volta. «Il tema del consenso si pone, però, anche nel restante 36% di contenuti, in cui i bambini, sia per una questione di età sia per l’esplicitazione del contesto, si rendono conto di essere registrati. Per i bambini è impossibile sapere quali conseguenze porterà questa loro esposizione. Figli e figlie possono sentirsi in dovere di partecipare all’attività del genitore influencer, per non “fare un torto, perdere la sua fiducia”. I bambini più esposti risultano essere quelli con un’età tra zero e cinque anni (sono quasi l’80%): un’età in cui non sono ancora in grado di esprimere il loro consenso e di comprendere l’uso che viene fatto della loro immagine».
Quando il genitore diventa datore di lavoro
«Il coinvolgimento dei minori nelle attività pubblicitarie e commerciali social dei genitori va equiparato alle altre forme di lavoro minorile ammesse dalla legislazione italiana». È la proposta, in linea con il disegno di legge attualmente all’esame del Senato, di Terre des Hommes. «In questo modo anche bambini protagonisti di advertising online risulterebbero tutelati in relazione al tipo di impegno cui sono chiamati e alle conseguenze psicofisiche ed emotive cui possono essere esposti».
A parlare è la responsabile advocacy e programmi Italia Terre des Hommes Federica Giannotta: «Per garantire la tutela del minorenne e prevenire i rischi per la sua salute psico fisica, il contenuto dell’advertising dovrebbe essere previamente valutato e approvato dalla Direzione provinciale del Lavoro, considerando il monte ore di lavoro, il ruolo rivestito dal bambino e la tipologia di prodotto pubblicizzato».
Scelgo di tutelare mio figlio al meglio che posso, pur rendendolo marginalmente parte della mia narrazione perché comprendo da cosa derivi la voglia di mostrarlo. Voglio provare che esiste una via di mezzo
Aurora Ramazzotti, influencer
In aggiunta a quanto previsto dal ddl, Terre des Hommes chiede inoltre che venga istituito un registro sul modello francese in cui ogni influencer indichi gli advertising in cui ha coinvolto il minore e che la Direzione provinciale del Lavoro possa avvalersi anche della collaborazione dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria per il rilascio dei pareri tecnici. «Tali tutele andrebbero estese secondo noi anche laddove bambini e bambine non siano protagonisti, ma semplicemente presenti nei contenuti sponsorizzati, e indipendentemente dal valore del contratto dell’influencer».
«Quando un genitore trasforma il proprio figlio in parte di un’attività commerciale, assume di fatto un doppio ruolo: quello di datore di lavoro e di genitore, con il rischio di compromettere la relazione di fiducia e sicurezza su cui si fonda l’infanzia», aggiunge Giannotta. «Per un bambino, soprattutto nei primi anni di vita, la perdita di spazi protetti e la messa in scena di momenti intimi possono minare il senso di protezione e la capacità di distinguere la realtà dalla finzione. Senza contare che la presenza online li espone a potenziali rischi di adescamento e pedopornografia, rendendo facilmente reperibili elementi utili a identificare la loro dimora e le loro abitudini. È per questo che chiediamo una regolamentazione».

Le domande che restano aperte
Che ne sarà di quei reel tra dieci anni? Come verranno percepiti dai bambini diventati adolescenti? Si potranno eliminare? Sono alcune delle domande che restano aperte. Il booklet si conclude con le dichiarazioni di celebrità o influencer che hanno deciso di adottare un approccio diverso e che potrebbero avere un ruolo nella sensibilizzazione su questi temi. Tra le altre, vengono citate le parole di Aurora Ramazzotti: «Scelgo di tutelare mio figlio al meglio che posso, pur rendendolo marginalmente parte della mia narrazione perché comprendo da cosa derivi la voglia di mostrarlo. Voglio provare che esiste una via di mezzo». C’è ancora molto da esplorare: «Il monitoraggio e la ricerca sono strumenti utili per comprendere e costruire un’educazione all’uso dei media digitali».
La fotografia in apertura è di Social Cut su Unsplash
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.