Disabilità & Salute

«Senza prevenzione, condannate a morte i nostri figli fragili»: l’appello di una mamma caregiver

Marina Cometto si è presa cura per 50 anni di sua figlia Claudia, nata con la sindrome di Rett, una grave malattia rara. Dopo aver difeso per anni i diritti di sua figlia e quelli di tanti genitori caregiver, oggi Cometto lancia un appello alle istituzioni. «Mia figlia è morta per un tumore diagnosticato tardi a causa dell'inaccessibilità degli screening oncologici. Così la sanità condanna a morte i più fragili: percorsi dedicati si possono e si devono garantire»

di Chiara Ludovisi

«Sono la mamma di una bellissima “bimba”. Dovrei dire “ero” e dovrei dire “donna”, ma per me Claudia è ancora qui ed è sempre rimasta una bimba, perché ha conservato anche da adulta la sua innocenza, la dolcezza e la gioia di vivere, nonostante le gravi limitazioni e sofferenze che la “strega cattiva” (come spesso noi mamme chiamiamo la sindrome di Rett) le ha imposto».

Inizia così la lettera aperta di Marina Cometto. Ce la recapita tramite Messanger, perché Facebook è stata per lungo tempo la sua piazza, l’unico spazio di socialità che riusciva a frequentare, quando doveva prendersi cura di Claudia e delle sue tante necessità. Facebook, allora, era la sua finestra sul mondo. Marina oggi è vicina agli 80 anni e Claudia avrebbe superato i 50, se due anni fa non se la fosse portata via, come si usa dire, un “brutto male”: non la sindrome di Rett, ma un tumore non diagnosticato in tempo utile, che quindi si è diffuso.

Marina Cometto e la figlia Claudia

Ed è per questo che Marina Cometto oggi ci scrive: «Intendo affrontare una campagna informativa sulla necessità degli screening preventivi anche per le persone con disabilità gravissima come Claudia. Se le diagnosi precoci fossero state accessibili, probabilmente Claudia sarebbe ancora qui con noi. Invece non è così: non lo era allora, non lo è neanche adesso. Così però la sanità condanna a morte i più fragili, escludendoli di fatto dalla prevenzione oncologica. Questo non deve più accadere». 

Così la sanità condanna a morte i nostri figli fragili, escludendoli di fatto dagli screening oncologici

Marina Cometto

Marina Cometto lancia tramite VITA un appello alle istituzioni, avvalorato e rafforzato dalla sua storia di vita e dal ricordo di Claudia, alla quale aveva dedicato anche un’associazione che portava il suo nome, “Claudia Bottigelli”: un’associazione con la quale ha aiutato tanti caregiver familiari a conoscere i propri diritti e a farli valere. Marina è diventata presto un punto di riferimento per tanti genitori e familiari di persone con disabilità, facendo un po’ di luce su una condizione di vita spesso avvolta nel buio, nel silenzio e nell’isolamento.

Lancio questa campagna perché Claudia possa lasciare la sua traccia in questo mondo. Qualcosa potrebbe cambiare grazie a lei

Marina Cometto

L’associazione ha poi dovuto chiudere i battenti, quando l’impegno è diventato insostenibile e incompatibile con le crescenti esigenze di Claudia, di cui Marina, con suo marito e gli altri due figli, si sono fatti carico con amore e dedizione fino all’ultimo momento.

Questa storia di vita e di cura, con tutte le sue vicissitudini, Marina l’ha raccontata ultimamente in un libro, Una vita a colori (Primalpe, 2025): una sorta di diario in cui ripercorre la vita di Claudia e della sua famiglia e le battaglie combattute per lei. «Perché Claudia possa lasciare la sua traccia in questo mondo. Qualcosa potrebbe cambiare grazie a lei», spiega Marina.

E questo cambiamento deve iniziare, appunto, dalla prevenzione: i percorsi diagnostici per le persone con disabilità devono diventare accessibili e garantiti. Perché nessuno debba più affrontare quello che ha affrontato Claudia, insieme alla sua famiglia.

Marina Cometto e la figlia Claudia

«Nel nostro Paese mancano screening dedicati a persone con disabilità gravissima. Queste necessitano infatti di anestesia totale per qualsiasi pratica medica in cui si richieda partecipazione e collaborazione, ahimè impossibili per chi presenti anche disabilità cognitive, oltre che fisiche o sensoriali».

Il problema è che «troppo spesso la complessità fa paura alla classe politica e medica, che cercano di allontanarla da sé, facendo finta che non esista, ignorando o negando il problema. Ne ho incontrati tanti, io, che mi dicevano che di quell’esame non c’era bisogno, che per Claudia era troppo invasivo, che ero troppo apprensiva, che insomma non si poteva fare. Così facendo, questi medici mettono a rischio la salute e la vita di tante creature condannate a morire precocemente, soprattutto per patologie oncologiche che, se scoperte in fase iniziale, si sarebbero potute curare adeguatamente».

Questo significa che l’accesso alla salute non è garantito a tutti: «Gli screening sono previsti per le persone sane: se sei una persona con disabilità gravissima o complessa, puoi anche morire, perché eseguire gli esami è troppo complicato, pur con tutte tecnologie avanzate esistenti oggi. Serve una colonscopia? Non si può fare, perché non c’è posto per un ricovero, seppur per un paio di notti appena. E poi ci sono altre urgenze, le liste d’attesa ecc. ecc. E intanto il tempo passa. Perfino una radiografia ai denti diventa un problema: intanto la carie avanza e il destino qual è? Estrarre tutti i denti! Claudia non ne aveva quasi più uno in bocca, ne aveva dovuti togliere tanti, perché anche se veniva riscontrata la necessità di una cura, in troppi ospedali tra la visita e l’intervento passano mesi. E a quel punto i denti sono persi».

Nel nostro Paese mancano screening dedicati a persone con disabilità gravissima che necessitano di anestesia totale per qualsiasi pratica medica in cui si richieda collaborazione

Stessa storia per la colonscopia, quella di cui avrebbe avuto bisogno Claudia, ma per la quale i tempi sono stati lunghi, troppo lunghi: «Per un esame del genere, bisogna ricoverare in ospedale la persona (quante difficoltà e ostacoli noi abbiamo incontrato negli ultimi anni per poterlo fare!). Il giorno prima dell’esame, un medico deve inserire un sondino naso gastrico per somministrare la purga, utile a pulire bene l’intestino. Per far questo, ci vogliono ore, anche perché una persona che non parla si esprime solo manifestando il disagio: per questo il genitore, spesso la mamma, deve essere sempre presente, per sostenere il figlio soprattutto moralmente. L’esame poi avviene con paziente intubato e in anestesia totale. Solo il giorno successivo può essere dimesso», spiega Marina. «E così un semplice esame diventa un “costo” importante per il sistema sanitario».

Anche un pap-test o un’ecografia diventano un’impresa quasi impossibile, per una persona con una disabilità importante come Claudia: «Tutti esami banali per una persona sana, ma praticamente impossibili per le persone con disabilità gravissima. In questo caso è necessaria una breve sedazione, quindi la presenza di un anestesista, perché la paziente non collaborante potrebbe non stare ferma e procurarsi danni anche importanti».

I pazienti fragili e complessi devono adeguarsi alle procedure e ai protocolli ordinari. Ma è proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere

Tutto questo sistema è radicato su un principio profondamente sbagliato: «I pazienti fragili e complessi devono adeguarsi alle procedure e ai protocolli ordinari: ma è proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere! È la procedura che deve essere personalizzata e adeguata ai bisogni e alle fragilità del paziente. Qual che accade invece nella realtà è che un ricovero breve, una sala operatoria, un anestesista sembrano richieste esagerate, quando invece possono fare la differenza tra la vita e la morte di una persona. Ma quanto vale, per voi, la vita di un paziente fragile?».

È questa la domanda che drammaticamente Cometto rivolge alla classe medica e politica: a chiunque, insomma, abbia il compito e la possibilità di cambiare e “umanizzare” questo sistema. E drammatica è l’ipotesi che avanza: «Forse la disabilità cognitiva cancella ogni diritto, in questo nostro mondo che si alimenta sempre più di esteriorità ed efficienza, ignaro della ricchezza che ogni persona offre, in termini di umanità, dedizione, resilienza e amore. Io che ho  vissuto accanto a Claudia ne sono testimone, dovete credermi: i sentimenti, l’amore per la vita, la capacità di essere felice, la voglia di esserci, mia figlia ha dimostrato di possederli fino alla fine: lo dimostrato resistendo a tante avversità, sopportando tante sofferenza e indifferenza, vedendo tante porte chiudersi e sentendo pronunciare tanti, troppi “no”. Claudia è stata vittima tante volte del cinismo spietato della sanità e di chi dovrebbe garantire la salute per tutti». 

Forse la disabilità cognitiva cancella ogni diritto, in questo nostro mondo che si alimenta sempre più di esteriorità ed efficienza?

Oggi che Claudia non c’è più, Marina Cometto torna a dar voce ad altri genitori che, come lei, chiedono dignità, diritti e attenzione per le fragilità dei loro figli. Perché «Claudia non è stata la prima né l’ultima vittima del sistema sanitario. Il mio sogno però è che, grazie a lei e quello abbiamo imparato accanto a lei, possiamo dare vita a un sistema sanitario più umano, più accogliente nei confronti dei bisogni di chi ha una disabilità complessa. A partire dal momento, fondamentale e cruciale, della diagnosi: per questo chiedo che siano messi in campo e diffusi, in ogni territorio e per legge, screening e percorsi diagnostici dedicati alle persone con disabilità, che permettano di individuare precocemente almeno le malattie oncologiche. Quante altre vite potrà avere sulla coscienza chi potrebbe colmare queste carenze e non lo fa? Nulla deve essere considerato impossibile, quando è in gioco la vita di un essere umano. Io, dal canto mio, sono a disposizione per offrire tutte le competenze acquisite sul campo in questi anni. Perché in questa materia, vi assicuro, nessuno è più esperto di noi genitori tutti. E di una mamma caregiver che ha assistito una figlia per 50 anni».

Le foto sono state fornite dall’intervistata

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