Consumi
Spreco alimentare: per ogni italiano 555 grammi di cibo alla settimana finiscono in pattumiera
Presentato il nuovo rapporto "Waste Watcher International", in occasione della sesta "Giornata internazionale di consapevolezza sulle perdite e gli sprechi alimentari". Lo spreco alimentare in Italia migliora, ma siamo ancora lontani dall'obiettivo previsto dall'Agenda 2030, che puntava a dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030. Il rapporto consacra la Generazione Z come campioni dell'antispreco. Per Andrea Segrè, direttore scientifico di "Waste Watcher" «sta nella creatività digitale il valore aggiunto per dare valore e nuova vita al cibo»
Ognuno di noi, ogni settimana, spreca 555,8 grammi di alimenti. È il dato registrato quest’estate, che segna un netto miglioramento rispetto all’agosto 2024, quando lo spreco alimentare era di 683 grammi. Siamo ancora lontani dal traguardo dei 369,7 grammi di cibo sprecato settimanalmente, previsto per il 2030. Un altro dato positivo è che lo spreco scende in modo significativo nell’area centrale del Paese, diventata la più virtuosa con “soli” 490,6 grammi. Al nord si sprecano mediamente 515,2 grammi di cibo ogni sette giorni e al sud il dato si impenna con 628,6 grammi a settimana. Più virtuose le famiglie con figli, che abbassano la soglia di spreco del 17% rispetto alle famiglie senza figli (+ 14 %) e più virtuosi i grandi comuni (-9%) di quelli medi (+ 16%). Nella hit dei cibi sprecati la frutta fresca (22,9 grammi a settimana), la verdura fresca (21,5 grammi) e il pane (19,5 grammi).
Sono i dati del nuovo rapporto dell’Osservatorio Waste Watcher International, presentati oggi in vista della sesta “Giornata Internazionale della Consapevolezza delle Perdite e degli Sprechi Alimentari”, istituita dalle Nazioni Unite, che si celebra il prossimo 29 settembre. Il report ha monitorato il comportamento degli italiani nel mese di agosto 2025, attraverso l’indagine promossa dalla campagna pubblica “Spreco Zero” insieme al dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’Università di Bologna.
A dieci anni dall’approvazione dell’Agenda ONU 2030 (25 settembre 2015) diventa urgente tracciare un bilancio sugli Obiettivi di Sostenibilità indicati nella Carta, in particolare quello al punto 12.3 che prevede di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030. A livello globale i dati Fao continuano a indicare in oltre 1,5 miliardi di tonnellate il cibo sperperato ogni anno sul pianeta, pari a un terzo del cibo prodotto. Di questo 33% sprecato, il 19% viene sprecato a livello di vendita al dettaglio, ristorazione e famiglie, mentre il 13-14% nella fase di produzione e raccolta. Solo in Europa, ogni anno vengono gettate 59 milioni di tonnellate di cibo, per un valore di 132 miliardi di euro. In media, ogni cittadino europeo spreca circa 70 chili di cibo in ambito domestico e 12 chili nei ristoranti. A livello globale le famiglie rappresentano il 60% dello spreco alimentare mondiale (UNEP, 2024).
Troppi coloro per i quali il cibo rimane una chimera
Ovviamente, mentre in alcune aree il cibo viene sprecato, in altre la fame persiste. Sono, infatti, ben 673 i milioni di persone che soffrono la fame, pari all’8,2% della popolazione mondiale, di cui il 20,2% in Africa e il 6,7% in Asia. In tutto, poi, 2,3 miliardi di persone – ben 4,9 milioni gli italiani – che vivono in condizioni di insicurezza alimentare, senza accesso garantito a un’alimentazione sufficiente e nutriente. Neanche minimamente.
Lo spreco e le perdite alimentari non sono solo un problema etico e sociale. Hanno un impatto devastante sull’ambiente: lo spreco di cibo è responsabile di quasi il 10% delle emissioni globali di gas serra, ovvero 5 volte quelle generate dall’aviazione
«Lo spreco e le perdite alimentari non sono, però, solo un problema etico e sociale», si legge nel rapporto Rapporto dell’Osservatorio Waste Watcher International,«perché hanno un impatto devastante sull’ambiente: lo spreco di cibo è responsabile di quasi il 10% delle emissioni globali di gas serra, ovvero 5 volte quelle generate dall’aviazione. Il 28% dei terreni agricoli, pari a 1,4 miliardi di ettari, viene utilizzato per produrre cibo che non verrà mai mangiato. È una superficie pari a 4 volte l’intera Unione Europea. E un quarto dell’acqua dolce utilizzata in agricoltura viene sprecato nella produzione di alimenti che finiranno nella spazzatura: si tratta di circa 250 km³ di acqua, l’equivalente del fabbisogno idrico annuo dell’intera popolazione mondiale».
«Parlando di ciò che non si consuma, ma viene prodotto a livello globale», spiega l’agroeconomista Andrea Segrè, direttore scientifico di Waste Watcher e fondatore della campagna “Spreco Zero”, «secondo le nostre stime, in termini di impatto ambientale e, quindi, di riscaldamento globale, conta per il 10%. È assurdo produrre qualcosa che poi diventa rifiuto e che tutto il ciclo che va dalla produzione allo smaltimento abbia un’incidenza così importante sulla produzione di CO2 che porta a riscaldamento globale».

Per Segrè in Italia oggi «ci sono alcune luci e alcune ombre. La luce è che, rispetto all’anno scorso, lo spreco procapite è diminuito e non di pochissimo, nel senso che siamo passati da 30 a 28 chili all’anno. Guardando in particolare le famiglie, l’Italia resta sopra la media europea nello spreco alimentare pro-capite settimanale: le rilevazioni Waste Watcher attestano, infatti, uno spreco settimanale medio pro capite di 555,8 grammi per l’Italia, a fronte di 512,9 grammi settimanali per la Germania, 459,9 per la Francia, 446,5 grammi per la Spagna e 469,5 per i Paesi Bassi. Dico bene, però non benissimo, perché siamo ancora parecchio lontani dall’obiettivo Onu che, nel 2015, chiedeva di ridurre lo spreco del 50% entro il 2030, mentre noi non raggiungiamo ancora neanche un taglio del 30% rispetto al dato di partenza».
Il 17% degli italiani non ha modificato i suoi comportamenti
Sempre secondo il rapporto: due italiani su tre (il 66%) hanno aumentato o conservato molto alta l’attenzione all’ambiente e ai comportamenti sostenibili, mentre uno su due dichiara di prestare maggiore attenzione all’impatto ambientale dei prodotti alimentari che acquista nel tempo della crisi climatica. Il 17% degli italiani, però, dichiara di non aver modificato i suoi comportamenti perché, dice, “non ritengo che ci sia alcun legame tra la crisi climatica e temperature anomale”.

Waste Watcher ha realizzato quest’anno un focus specifico per capire se e come i conflitti internazionali influiscano sulle nostre abitudini di approvvigionamento, fruizione e gestione del cibo. L’indagine restituisce con evidenza il fatto che più di 1 cittadino su 3 (il 37%) ritiene utile puntare sui prodotti made in Italy nell’attuale contesto di guerre e tensioni internazionali, ma anche di crisi dei dazi. È la risposta a un contesto percepito come instabile, e questa tendenza risulta particolarmente marcata tra i soggetti di età compresa tra i 35 e i 44 anni e tra gli over 64, con una concentrazione geografica significativa nel Centro Italia.
«I dati Waste Watcher sembrano restituire una trasformazione culturale che viaggia in profondità», sottolinea Luca Falasconi, coordinatore del Rapporto Waste Watcher “Il caso Italia”, «Il contesto internazionale alimenta una nuova attenzione al valore delle risorse, e in particolare al cibo. Ogni giorno immagini di carestie e fame, da Gaza o da altri teatri di conflitto, entrano nelle nostre case risvegliando la nostra sensibilità, un rinnovato senso di giustizia, insieme alla consapevolezza di una interconnessione globale che chiama in causa e rende responsabili tutti i cittadini del mondo».

Quali sono i consumatori in grado di fare la differenza?
«Sono chiari e in prospettiva molto promettenti», ci rivela ancora il ricco rapporto, «gli elementi positivi associati alla Generazione Z, che mostra una forte propensione a riutilizzare gli avanzi in tempi rapidi, affidandosi a ricette trovate online (+10% rispetto al campione nazionale), che porta a casa gli avanzi dal ristorante (+6%) o che condivide il cibo con parenti e vicini (+5%), che porziona e surgela gli alimenti più deperibili (+2%), che sceglie di aumentare la frequenza di acquisto (+1%), presta più attenzione all’impatto ambientale dei prodotti alimentari acquistati (+2%), è molto più sensibile (+8%) rispetto alle tensioni internazionali, è molto più attenta (+11%) all’economia dei prodotti indipendentemente dalla loro provenienza, che compra sempre
frutta e verdura di stagione (+2%). Insomma, i giovani della Gen Z sono dei veri campioni antispreco. Ma sta soprattutto nella creatività digitale il valore aggiunto per ridurre il consumo alimentare eccessivo, dare valore e nuova vita al cibo, attivare relazioni».
Quando questi ragazzi usano al meglio la parte digitale, i loro comportamenti seguono la strada giusta e hanno l’impatto corretto sull’ambiente
«La Generazione Z inizia a 18 anni, quindi parliamo di maggiorenni, la cui età, però, si estende sino ai 27 anni. Sicuramente hanno diversi problemi: hanno poco tempo, un reddito basso, non sempre lavorano. Ma hanno due caratteristiche importanti, che noi più anziani non possediamo, e cioè che, essendo nativi digitali, riescono a utilizzare al meglio gli strumenti specifici: una in particolare è l’applicazione Sprecometro, che serve proprio a intervenire sullo spreco a livello domestico, registra subito l’impatto economico e ambientale, quindi ti dice che se hai gettato via mezza mela per una qualche ragione, ti indica il costo e poi anche quanta acqua è servita per produrla, infine ti offre dei contenuti di educazione alimentare. Nel momento in cui questi ragazzi usano al meglio la parte digitale, i loro comportamenti seguono la strada giusta e hanno l’impatto corretto sull’ambiente. Va anche detto che questa App è legata al dono, alla relazione, infatti la cosa più bella che ho letto nei dati è che aumenta la capacità di interazione. Se, infatti, la mia generazione, i boomer per intenderci, è un po’ meno generosa, non crea occasioni per generare relazioni, diciamo che la cultura della reciprocità del dono, nella generazione digitale, è molto presente. Sfatiamo il pregiudizio che i giovani, essendo digitali, sono virtuali. In realtà sono molto reali», spiega Segrè.
Noi abbiamo perso il valore del cibo, se ne spreca veramente troppo perché c’è, lo paghiamo spesso anche poco, ma non siamo tanto interessati all’impatto che ha la produzione sull’ambiente, sulla salute. Tra l’altro continuano a essere i più poveri, dal punto di vista alimentare, a sprecare di più
Cosa migliorare?
La strada è quella ineludibile del promuovere, adottare, istituire l’educazione alimentare: «Noi abbiamo perso il valore del cibo, se ne spreca veramente troppo perché c’è, lo paghiamo spesso anche poco, ma non siamo tanto interessati all’impatto che ha la produzione sull’ambiente, sulla salute. Questo viene fuori ormai da anni; tra l’altro continuano a essere i più poveri, dal punto di vista alimentare, a sprecare di più. Nel rapporto emerge che rispetto alla media, chi ha meno accesso al cibo, anche dal punto di vista economico, spreca di più perché abbassa il livello qualitativo degli acquisti e della nutrizione. Sulla salute questo ha un effetto molto negativo, basta vedere i dati su sovrappeso, obesità, malattie cardiovascolari, malattie derivate dall’alimentazione, come il diabete 1 e 2 per le fasce meno ambienti. Su questo chiedo di alzare il livello di attenzione, perché non sta migliorando nulla, tutt’altro», conclude Segrè.
Alla presentazione del rapporto è intervenuta anche Maria Chiara Gadda, promotrice della Legge 166/2016 che disciplina la donazione e distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici per la solidarietà sociale: «Sono passati quasi 10 anni dall’approvazione della legge 166 antispreco. Tanti i risultati positivi: le cose sono migliorate sul piano della maggiore consapevolezza e del migliore rapporto fra le imprese della filiera produttiva che donano e il mondo del volontariato e del terzo settore. Migliaia le tonnellate di cibo recuperate e sono aumentati i luoghi di raccolta delle eccedenze: non solo da parte della grande distribuzione, ma anche delle imprese di produzione, dei mercati rionali, dei grandi eventi e si recuperano in Italia anche i prodotti freschi e freschissimi», ha sottolineato. «Ora si può senz’altro migliorare sul piano della logistica e sostenere questo sforzo anche attraverso nuove misure normative».
Foto di Anita Jankovic su Unsplash
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