Una vita andata in frantumi nell’arco di appena due mesi, quando tutto sembrava andare meravigliosamente. Un fidanzato che l’ha lasciata, la società di consulenza della quale era vicepresidente che ha chiuso i battenti, il mancato rinnovo del contratto da docente universitaria in un importante ateneo. Ce n’era abbastanza per mettere al tappeto chiunque. E in effetti stava per finire così. Ma poi è accaduto qualcosa di meraviglioso e imprevedibile che ha modificato radicalmente la sua vita. Francesca Corrado, calabrese di Crotone laureata in Economia politica, trapiantata da anni a Modena, ha una storia importante da raccontare e che propone di frequente, quando partecipa agli incontri organizzati dalla Scuola di Fallimento che lei ha fondato.
Ci racconti come è andata.
Era il 2015. In poche settimane, ho visto scivolare pezzi enormi della mia vita senza che ci fossero stati segnali premonitori. È vero che mi sono rimboccata le maniche e ho ricominciato da zero, ma non è stato così immediato. Nei primi sei mesi non l’ho presa bene, tant’è che sono finita in ospedale. Non riuscivo a gestire il contrasto di emozioni che avevo, tendevo a colpevolizzare gli altri per tutto ciò che mi era capitato, cioè dei miei fallimenti. La mia rabbia si stava trasformando in odio. Ho somatizzato tutto e, in più, non raccontavo a nessuno ciò che mi stava succedendo.

Vuol dire che nessuna delle persone più care era al corrente del suo dramma?
Esattamente. Fingevo che tutto andasse a gonfie vele. Avevo paura di essere giudicata. Il silenzio misto alla rabbia mi ha portato in ospedale. Lì un medico mi ha riportato alla realtà: mi ha detto che stavo ingoiando bocconi amari che avrebbero fatto male soltanto a me stessa e alla mia salute, come peraltro stava già accadendo. A quel punto ho capito che dovevo cambiare la prospettiva. Tra l’altro, dare la colpa agli altri non mi aiutava a risolvere il problema. Anzi, lo peggiorava, perché vedevo gli altri vivere serenamente: per loro era semplicemente la chiusura di un rapporto e basta.
È stato in quel momento che è rinata a nuova vita?
Sì, in questo mi ha aiutato la malattia di mio padre. Uscita dall’ospedale, sono tornata per un breve periodo in Calabria. E se prima mi sentivo al centro dell’universo, stavolta ho capito che al mondo accadevano cose più gravi di quelle vissute da me. Mio padre, malato di Alzheimer, aveva problemi più grandi dei miei e non risolvibili. Io invece ero viva e potevo superarli, dipendeva soltanto dalla mia volontà. La responsabilità del non cambiamento sarebbe stata unicamente mia.
Intervenendo alla conferenza “Aprire Orizzonti”, a Cagliari, nei giorni scorsi lei ha parlato a lungo di fallimenti e della paura del giudizio altrui. Un problema universale, che riguarda tutti.
È umano temere il giudizio degli altri perché con essi ci relazioniamo. La nostra autostima dipende anche dalle risposte che gli altri ci danno. Il problema sorge quando facciamo delle cose che non vanno nella direzione e nell’aspettativa degli altri. Ciò ci porta ancor di più a temere il giudizio. Se il giudizio degli altri è più morbido nei nostri confronti, noi non lo temiamo: questo emerge chiaramente anche negli incontri che facciamo con bambini e adulti. Se costruiamo ambienti in cui non c’è questa spinta forte alla competizione, non c’è la tentazione di trattare male gli altri e prendersi gioco di essi, allora possiamo accettare il giudizio senza ripercussioni. Il problema è che viviamo nella società del biasimo e della colpa, che ti punisce se fai qualcosa di sbagliato (accade anche nella religione), ci porta a non fare nulla o a conformarci alle aspettative altrui. Faccio di tutto per evitare di essere biasimata. E continuo a perpetrare schemi che non sono miei, bensì di qualcun altro.

Da Crotone a Modena è stato un bel cambiamento.
Ormai sono diventata una nomade, giro l’Italia per il progetto della Scuola di Fallimento, che ho fondato nel 2017. Mi sono ispirata alla cultura americana, la quale considera l’errore come una tappa della crescita personale. Ho capito che, se ho fallito un obiettivo, non significa che sono una fallita. Allo stesso tempo mi sono accorta che in Italia non esisteva niente che potesse aiutare le persone a superare questo approccio culturale sbagliato. Ho messo in pratica ciò che sapevo fare, da docente e da formatrice. Così ho iniziato a parlarne con amici e conoscenti.
Quali sono state le loro reazioni?
Erano decisamente contrastanti: c’era chi non voleva saperne, perché sostenevano che portasse sfortuna anche il solo parlarne; e chi, invece, si diceva entusiasta dell’idea perché finalmente poteva parlare con qualcuno di ciò che non aveva funzionato e magari ancora non funzionava nella propria vita. Così ho organizzato una grande festa a Modena, per celebrare i miei fallimenti e ricominciare daccapo. Per me è stata una vera liberazione.

Qual è il suo target?
Tutti, senza distinzioni: bambini, ragazzi, adulti. Studenti, docenti, genitori, ma anche imprenditori. Più in generale, le scuole e le grandi imprese. Facciamo percorsi dai 5 anni in su, personalizzandoli per le start up, le donne e i professionisti. Spesso richiedono la mia presenza perché ritengono fondamentale la mia esperienza diretta, cioè quello che ho sperimentato sulla mia pelle.
Come rispondono i bambini?
Sono straordinari perché non hanno ancora troppi filtri culturali. Abbiamo tanto da imparare da loro. Dai disegni e dagli scritti che realizzano durante gli incontri, emergono indicazioni importantissime. Ma non dimentichiamo che la paura di sbagliare, a differenza dell’atavica paura della morte, è stata appresa.

La cultura di un Paese o di un’area geografica ha un peso fondamentale nell’approccio a questi argomenti?
Non c’è dubbio. Prendiamo l’Italia: come un po’ in tutti i Paesi cattolici, l’errore è spesso legato al senso di colpa che ci viene inculcato sin da bambini. Per lo meno, nella maggior parte delle famiglie. Non solo: nei Paesi con un Prodotto interno lordo in crescita, si registra una maggiore apertura a dare seconde possibilità (e questo è comprensibile, visto che c’è una forza economica si un certo tipo); viceversa, nei Paesi in crisi il fallimento viene percepito come una colpa. Negli Stati Uniti accade il contrario, al punto che si usa dire “fail fast”, cioè fallisci velocemente, sperimenta in fretta l’errore per raggiungere più rapidamente il successo. Negli Usa, le società che falliscono vengono finanziate in maniera più cospicua rispetto a quelle che non sono mai fallite.
Nel nostro continente la situazione cambia da zona a zona.
Ognuno di noi è portatore sano della cultura da cui proviene. I Paesi del Nord Europa sono decisamente più avanti di noi, non a caso educano all’errore sin da bambini. In Italia, invece, sono stata bannata da una grande azienda proprio perché tratto il tema del fallimento. Non ne vogliono sapere, per loro porta jella. La nostra è una società algofobica, che ha una paura irrazionale del dolore e lo respinge. Il successo diventa l’ideale a cui dobbiamo aspirare. E dev’essere raggiunto con linearità, cioè con un certo livello di perfezione. Possibilmente senza fatica e sudore. Figurarsi se crisi e fallimento possono essere presi in considerazione. Nel nuovo Codice della crisi d’impresa, il termine tabù è stato sostituito con un tecnicismo: liquidazione giudiziale.

C’è, dunque, una forte discrepanza tra il pensiero illusorio e la realtà.
Esattamente. E questo aspetto è stato reso ancor più evidente con l’avvento dei social. Tutte le persone che erano adolescenti intorno al 2010, hanno avuto un impatto più negativo rispetto alla percezione del mondo. Guarda caso, quella generazione è più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e suicidari. Nei nostri test, l’emozione più frequente che i bambini e gli adolescenti associano all’errore e al fallimento è la rabbia (oltre il 53%). Seguono la tristezza (23,3%), la sorpresa (14%) e la paura (5%). Le altre emozioni presenti in misura minore sono l’ansia, la delusione, il dispiacere, il disprezzo.
Che tipo di lavoro fate alla Scuola di Fallimento?
Facciamo comprendere ai partecipanti che l’errore è insito nella natura umana. Lo sappiamo, ma spesso non lo traduciamo in fatti concreti. I millennial associano al fallimento un sentimento di vergogna e di rabbia che si trasforma in ansia, depressione, malattia. Se però chiedo ai millennial cosa sia per loro il fallimento, la risposta cambia: lo vedono come un’opportunità, un dono per migliorare. Com’è possibile concepire l’errore come un regalo ma associare ad essa addirittura la rabbia? Perché in tutti c’è la consapevolezza che errare è umano, ma poi si trovano davanti a delle incoerenze: genitori, insegnanti, capi, società che sembrano non sbagliare mai. E se sbagliano, spesso la colpa è degli altri. Nei nostri test emerge che i giovani, oggi, hanno paura di sbagliare (55%) e anche del futuro che li attende (addirittura il 70%).

La differenza di genere si avverte in questo specifico ambito?
Moltissimo. Le donne in media si prendono molto più tempo per prendere una decisione rispetto agli uomini, hanno un processo di elaborazione più lungo. Io e la mia equipe di collaboratori, abbiamo svolto uno studio su un concorso pubblico della Banca d’Italia. Ci chiedevamo come mai partecipassero in maggioranza donne ma li passassero prevalentemente gli uomini. Non era un problema di competenze perché avevano titoli di studio di alto profilo. Abbiamo scoperto che le donne rimuginavano a lungo sulle risposte da dare, e alla fine ottenevano un punteggio più basso rispetto agli uomini che, in caso di dubbio, non davano una risposta (quella errata comportava un -1) e passavano alla successiva (una mancata risposta corrispondeva alla valutazione 0). Alla fine, questo atteggiamento risultava premiante. Non a caso, quando l’anno successivo Banca d’Italia ha modificato la regola dei punteggi, il numero di donne che ha passato il concorso è stato superiore. In generale, ci sono differenze negli atteggiamenti anche tra bambini e bambine, ma non per una questione genetica bensì per l’educazione ricevuta. Emerge chiaramente anche nei test che facciamo con la Scuola di fallimento. In generale, le donne sono più sensibili all’ errore perché sono educate al mito della perfezione: in ogni circostanza, devono dimostrare di essere brave, responsabili, impeccabili e accomodanti. Eppure, l’errore è necessario: impariamo a parlare, a camminare, ad andare in bicicletta, a nuotare, cadendo e commettendo errori.

Dal fallimento dei singoli a quello della massa.
Falliscono i luoghi, falliscono le persone, falliscono le civiltà. Dunque, c’è anche un fallimento macro. Spesso dipende dal non imparare dagli errori e dagli eventi del passato, che invece ci indicano in quale direzione andare. Questa forma di società contemporanea, che ci vuole sempre più performanti e perfetti, è di per sé una forma di fallimento.
Lei oggi, dimenticato quel brutto periodo, può dirsi una donna felice?
Dobbiamo intenderci sul senso della felicità. In verità, non possiamo essere sempre felici. Abbiamo bisogno di giornate grigie per capire che quelle con il sole ci rendono felici. Se avessimo sempre il sole, ci sembrerebbe la normalità e non ne godremmo. I momenti di crisi ci servono per apprezzare i momenti più belli.
Credits: la foto d’apertura è dell’autore del servizio; le altre sono di Francesca Corrado e della Scuola di fallimento
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