Alfred Bakuku si affretta a cambiarsi la camicia e a chiamare sua moglie appena vede arrivare i visitatori. Accoglie gli operatori di Fondazione Avsi nel terreno che coltiva nel distretto di Kyekegwa, Uganda occidentale, a pochi chilometri dall’insediamento di rifugiati congolesi Kyaka II. «Spostiamoci all’ombra, sotto quell’albero», suggerisce Alfred. Ha 52 anni ed è agricoltore da quando era piccolo, lavora nei campi con sua moglie e insieme crescono quattro bambini. Ha sempre coltivato mais e fagioli, come suo padre, come suo nonno. «Tanto lavoro ma i proventi del raccolto non sono mai stati troppo abbondanti. Facevamo fatica a mangiare più di una volta al giorno e non tutti gli anni riuscivamo a pagare le rette della scuola», spiega.

Il suo terreno oggi è diverso. File ordinate di cipolle, zucche e melanzane occupano questa piccola valle tra le colline. Diciotto mesi fa è entrato a far parte del progetto Smiles, realizzato da Avsi con il finanziamento di Ikea Foundation, e da allora ha ricevuto formazione agricola, un piccolo prestito iniziale e l’accompagnamento di un coach. Ha imparato a diversificare le colture ed è entrato a far parte di un gruppo di risparmio e prestito del suo villaggio. In sei mesi è riuscito a ripagare i soldi anticipati e oggi guadagna circa 1,6 milioni di scellini ugandesi a stagione, quasi tre volte la cifra che otteneva prima del progetto. «Con quei soldi ho affittato altro terreno da coltivare e assunto manodopera, fino a otto persone a seconda del periodo e delle esigenze».
Alfred racconta che il proprietario del suo campo ha alzato l’affitto da quando ha saputo che guadagna di più. Una pratica comune in Uganda, dove spesso i canoni si basano solo su accordi verbali. «Metto da parte qualcosa ogni stagione per poter acquistare un pezzo di terra mio», dice. Ma intanto l’aumento delle entrate permette ad Alfred e alla sua famiglia di mangiare ogni giorno e più volte al giorno, di pagare le rette scolastiche e le visite mediche di controllo.
I rifugiati e un distretto sotto pressione
Gran parte della manodopera agricola che Alfred assume arriva da Kyaka II, uno storico insediamento di rifugiati nato negli anni ‘80 per accogliere i tutsi ruandesi che fuggivano dal genocidio. Oggi ospita oltre 135mila persone, in gran parte congolesi arrivati negli ultimi 15 anni, a fronte di una popolazione autoctona di 250mila abitanti. «La pressione sulle risorse naturali è enorme, in un distretto in cui 4 persone su 5 vivono di agricoltura», spiega John Baptiste Kahume, agronomo e consulente di Avsi che nell’ambito del progetto Smiles si occupa di preparare le formazioni per i partecipanti come Alfred. «I rifugiati ricevono appezzamenti molto piccoli che non bastano per sfamare una famiglia. Allo stesso tempo, gli agricoltori locali si ritrovano con meno terra e costi in aumento».

L’aumento della popolazione dovuta all’insediamento di Kyaka ha avuto un impatto sulla fertilità del terreno, sovrautilizzato, in un Paese in cui l’utilizzo di concime è fermo all’1% e le stagioni secche si allungano a causa del cambiamento climatico – e sulla deforestazione, perché sempre più campi sono resi coltivabili sottraendoli alle foreste e sempre più alberi vengono tagliati per garantire il fabbisogno di legna e carbone. La scarsità di risorse si riflette anche sui servizi scolastici e sanitari: contadini più poveri non possono permettersi educazione e cure e questo attiva un circolo vizioso che continua a prosciugare il territorio di Kyekegwa.

«Sono tutti elementi che teniamo in considerazione quando lavoriamo con gli agricoltori di entrambe le comunità», dice John Baptiste. «Anche per questo il progetto Smiles cerca di indirizzarli verso colture più efficienti e gestibili con meno risorse».
Il colpo dei tagli ai fondi
Questa tensione è stata amplificata dai tagli ai fondi internazionali, in particolare da parte di Usaid, l’agenzia di cooperazione americana, e del World Food Programme (Wfp). Per anni, Wfp ha distribuito razioni alimentari di base che garantivano almeno due pasti al giorno a decine di migliaia di famiglie rifugiate. Ma quando i finanziamenti sono diminuiti, le razioni sono state tagliate o eliminate del tutto. Un blocco che ha avuto un impatto sull’economia di questa regione. «Ora molte persone mangiano una sola volta al giorno», spiega Alfred, «e questo porta più gente nei campi a cercare lavoro, aumentando la competizione per le risorse. Inoltre, le persone hanno meno soldi a disposizione e molte attività commerciali hanno dovuto chiudere per mancanza di clienti».
Il taglio dei fondi statunitensi ai programmi di sviluppo ha peggiorato la situazione. I progetti che insegnavano competenze agricole, supportavano l’avvio di piccole imprese o miglioravano la resilienza economica delle famiglie sono stati interrotti. «È una visione miope», spiega Kahume. «Investire nello sviluppo significa ridurre la dipendenza dagli aiuti, migliorare la nutrizione, l’accesso all’educazione e alla salute. In un distretto come Kyekegwa, vuol dire salvare vite nel medio e lungo periodo».
Una “laurea” per uscire dalla povertà
Il cuore del progetto Smiles di Avsi è il cosiddetto Graduation Approach, un modello che si propone di accompagnare le famiglie più povere lungo un percorso strutturato di 18 mesi, fino a portarli fuori da una condizione di vulnerabilità estrema. Avviato nel 2022, il progetto coinvolge oltre 14mila famiglie – circa 70mila persone – tra rifugiati e membri delle comunità ospitanti del distretto di Kyegegwa.
«È come un corso di laurea contro la povertà», dice Rita Larok, 43 anni, che lavora da oltre quindici anni su programmi di graduation di Avsi in Uganda e ora cerca di esportarli anche in altri Paesi. «All’inizio diamo un sostegno immediato: un piccolo capitale o beni essenziali. Poi forniamo formazione tecnica e coaching personalizzato. Insegniamo a risparmiare, a porsi obiettivi, a prendere decisioni economiche. Alla fine, le persone sono in grado di camminare da sole».

Il termine “graduation” viene proprio da questo: i beneficiari “si laureano” quando raggiungono una soglia di autosufficienza stabilita in base a indicatori precisi – reddito, cibo, istruzione dei figli, condizioni abitative. «Ma quello che migliora più di tutto è la qualità della loro vita», spiega Rita. «Vediamo risultati proprio nell’atteggiamento dei partecipanti: sono meno ansiosi, hanno più fiducia in loro stessi, sono in grado di fare progetti per il futuro. In poche parole sono più felici» Rita ha speso buona parte della sua carriera a implementare programmi di graduation con Avsi, ora il suo ruolo è quello di assicurarsi che la qualità dei progetti sia sempre alta. Supervisiona alcune attività, segue il monitoraggio, commenta i report, suggerisce cosa può essere migliorato. «Cerco sempre di guardare prima le cose positive, funziona meglio. Sarebbe più semplice individuare i problemi e risolverli, più difficile capire cosa funziona. E continuare a farlo», dice. Il programma non è statico. Ogni ciclo di beneficiari diventa un laboratorio di apprendimento. «Abbiamo capito che connettere il settore privato ai partecipanti fin dall’inizio è più efficace», racconta Rita. «Così si costruiscono relazioni di fiducia che durano e generano opportunità migliori.»
Anche i coach sul campo hanno imparato a essere più reattivi, a prendere decisioni più informate e veloci. «Semplicemente, abbiamo più esperienza», aggiunge. «E i beneficiari lo sanno. Ora arrivano motivati, consapevoli che il programma funziona.» Alfred lo conferma: «Quando mi hanno parlato per la prima volta di questo percorso, ero scettico. Pensavo che fosse impossibile. Ma oggi devo ricredermi».
East-West Seeds: il mercato come alleato
Un esempio concreto è quello di Esther, una giovane madre che prima del progetto Smiles coltivava un piccolo appezzamento di mais e fagioli. Un acro di terra che le permetteva di guadagnare appena 200mila scellini a stagione. Con Smiles ha ricevuto un finanziamento da 1,6 milioni di scellini, formazione agricola e l’invito a unirsi a un gruppo di risparmio e prestito. «In sei mesi ho restituito il prestito e con i soldi guadagnati ho potuto affittare quattro acri di terreno. Ora vendo non solo al mercato locale, ma anche a compratori che arrivano dal Ruanda e dal Kenya. Prima i miei bambini mangiavano solo platano e fagioli. Uno di loro era malnutrito e doveva prendere medicine in ospedale. Oggi mangiamo porridge, latte, verdure e a volte anche carne. Posso pagare una scuola migliore e vedere crescere sani i miei figli».

Una delle chiavi del successo del progetto è il collegamento diretto tra i beneficiari e gli attori del mercato. EastWest Seeds, azienda specializzata nella produzione e distribuzione di semi è uno dei partner principali. è una multinazionale con sedi in tutta l’Uganda ed è specializzata in semi “ibridi”, una varietà più efficiente, capace di generare piante che danno più prodotto con la stessa quantità di terreno. «Il problema, però, è che sono più cari di quelli tradizionali e gli agricoltori non sanno usarli», spiega Faith Akampumuza, technical field office della sede di EastWest Seeds di Kyekegwa. «Per questo motivo, insieme ad Avsi, ci occupiamo di formare i partecipanti di Smiles su tecniche e pratiche moderne per poi aiutarli a entrare sul mercato. E lo facciamo gratuitamente».
Alfred ed Esther hanno partecipato ai corsi di EastWest, hanno migliorato la produttività dei loro terreni e ne hanno tratto beneficio. Ma non è un’attività che EastWest svolge per beneficenza. «Se i produttori imparano presto a usare semi di qualità e a lavorare bene la terra, diventano più produttivi e competitivi», dice Esther. «E noi abbiamo tutto l’interesse a formarli, perché un contadino che guadagna di più comprerà più semi». Un rapporto di beneficio reciproco che il modello graduation cerca volutamente per rendere queste dinamiche più durature. Anche dopo che il progetto sarà finito.
Nel cuore di Kyaka II
Il marito di Vumilya Sifa è stato ucciso in uno scontro a fuoco nel 2013, a Rutshuro, un villaggio nella regione del Nord Kivu, in Repubblica Democratica del Congo. Gli uomini dei gruppi armati entravano nel paese ormai ogni giorno, sparavano e rapivano gli abitanti. Così Vumilya ha deciso di scappare insieme ai suoi 5 figli. «Il più grande aveva 13 anni, la più piccola solo due mesi. Abbiamo camminato per tre giorni insieme ad altri rifugiati. Fino al confine con l’Uganda». Tutti i congolesi che attraversano la frontiera vengono accolti dalle autorità ugandesi con la stessa procedura: 72 ore nei centri accoglienza al confine – ma a volte la permanenza può durare anche due settimane – e poi vengono indirizzati ai vari insediamenti nel Paese, dove ricevono un appezzamento di terreno da 30 metri quadri. Lì devono costruirsi una casa e possono coltivare per il loro sostentamento. Vumilya e i suoi figli sono stati mandati a Kyaka II. «Avevamo solo una tenda di plastica quando siamo arrivati».

In ogni insediamento di rifugiati in Uganda c’è un Commandant, ovvero un funzionario del governo ugandese nominato responsabile del campo. È lui a coordinare la vita dell’insediamento: decide come distribuire i terreni alle famiglie, gestisce i rapporti con le ong, si assicura che i servizi – scuole, cliniche, punti acqua – funzionino. A Kyaka II il Commandant è David Mugenyi e accoglie qualsiasi visitatore arrivi nel campo. «Da gennaio a maggio 2025 sono arrivati 60mila rifugiati, a causa dei recenti scontri di Goma. Ma il taglio ai fondi statunitensi ci ha sorpreso e non eravamo preparati», spiega David Mugenyi. «Quasi la metà delle famiglie non riceve più assistenza alimentare. Il cibo che ricevevano si è fermato improvvisamente e molti hanno iniziato a cercare lavoro fuori dal campo». Da allora, le famiglie hanno ridotto i pasti, le scuole hanno perso insegnanti e i centri di salute medici e le ambulanze hanno meno personale e carburante. «Ogni due mesi si registra un’epidemia: morbillo, mpox, soprattutto. Soffriamo la mancanza di screening e di medicine«, dice Mugenyi.
Dal negozio di Vumilya alla cooperativa di risparmio
Quando è stata coinvolta in Smiles, Vumilya gestiva un piccolo chiosco dove vendeva cipolle, olio e noccioline. Ha ricevuto un trasferimento iniziale di 265mila scellini e poi un prestito di 600mila, con cui ha ampliato la gamma di prodotti. «Ora vendo farina, fagioli, sapone, bibite. Prima facevamo un pasto al giorno, oggi ne facciamo tre. I miei figli possono andare a scuola e vestirsi bene. La cosa più importante è che sento di essere tornata una persona importante, perché ho un ruolo nella comunità». Vumilya è anche tesoriera del suo gruppo Vsla (Village Saving and Loan Association). Ci porta nella sua casa, dove tiene la cassa comune del gruppo. «Mi hanno eletta perché si fidano di me. Ogni settimana raccogliamo i risparmi, discutiamo i prestiti, registriamo tutto. È una grande responsabilità, ma mi dà soddisfazione vedere i progressi degli altri».

Con lei ci sono altre donne, come Elizabeth Tusabe, arrivata nel 2009 dal Congo con marito e cinque figli, e Kanyere Zawadi, che con i risparmi messi da parte ha potuto sostituire il tetto di plastica della sua casa, rosicchiato dai topi, con uno di lamiera. «Sono esempi concreti di come il modello graduation non sia solo individuale, ma crei reti di sostegno reciproco», spiega Claudine Kampire, 33 anni, una delle operatrici di Avsi che implementano il progetto Smiles a Kyaka II. Anche lei è scappata da Rutshuru, lo stesso villaggio di Vumilya e di molti rifugiati di quest’area dell’insediamento. Ha scelto il Rwanda per studiare e dopo la laurea ha raggiunto i genitori nel campo di Romwanja, in Uganda. «Quello che amo di questo lavoro è che vedi davvero il cambiamento. Vedi famiglie che vivono in tenda e poi le rivedi anni dopo in una casa vera. Una volta una famiglia mi disse: “Questa casa è anche la tua”. Ma io li ho solo incoraggiati. Sono loro che hanno fatto tutto». Claudine spiega che il progetto Smiles non si limita a dare aiuti. «Qui le persone hanno sempre vissuto nell’incertezza, con la paura di perdere tutto di nuovo. Il coaching e i gruppi di risparmio servono a ridare fiducia. È questo che fa la differenza».
Per capire se e come programmi complessi come Smiles riescono davvero a spezzare il ciclo della povertà, serve un monitoraggio continuo. Dean Karlan, economista e fondatore di Innovations for Poverty Action, guida un team di ricercatori indipendenti che collabora con Avsi per valutare l’impatto del progetto. «Il nostro lavoro è raccogliere e analizzare dati sui partecipanti, dividendo in gruppi di controllo e trattamento, per misurare con precisione cosa funziona di più e cosa meno», spiega Karlan. «È un processo difficile, ma fondamentale: ci permette di migliorare i progetti futuri e di aiutare più persone, meglio». I ricercatori intervistano centinaia di famiglie, seguono i loro progressi, misurano cambiamenti di reddito, salute e benessere. «I dati del passato ci dicono come progettare il futuro», aggiunge Karlan.
Qualche giorno dopo, Claudine Kampire entra nel piccolo negozio di Grace Kamakune Kabasingusi per una visita di monitoraggio. Grace ha 24 anni ed è arrivata dal Congo con i suoi due figli dopo un viaggio estenuante. «All’inizio la vita era molto difficile, non avevamo niente», racconta. Lavorava saltuariamente nella comunità ospitante, ma non bastava nemmeno per un pasto al giorno. Con un trasferimento iniziale di 800mila scellini da Avsi e un prestito di 400mila dal suo gruppo di risparmio Vsla, ha aperto questo negozio. «Quando c’era il supporto alimentare del Wfp riuscivo a guadagnare 250mila scellini al mese, ora intorno ai 100-150mila. Ma i miei figli mangiano tre volte al giorno e vanno a scuola. È stata la prima cosa che ho fatto». Sorride mentre serve una cliente. «Per il futuro vorrei solo continuare a lavorare e poter mantenere la mia famiglia. O magari andare da qualche altra parte, in America».
Tutte le foto sono di Aldo Gianfrate
Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?
Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it

