Gaël Giraud

«Curiamo la Terra e le democrazie malate con i beni comuni»

di Nicola Varcasia

Economista, matematico, ricercatore, nel suo nuovo libro ("Costruire un mondo comune") il sacerdote francese va dritto al punto: «Dio non benedisse la proprietà privata». Un fil rouge complesso e avvincente lega l’attuale policrisi ecologica, l’immaginario dell’uomo Vitruviano «da cambiare», il racconto evangelico dell’Ascensione e la teoria del nobel Elinor Ostrom: le cose più preziose che ci sono state donate vanno amministrate insieme. Europa, se ci sei batti un colpo!

La democrazia europea è malata. Negli Stati Uniti è messa peggio. I venti di guerra hanno silenziato l’emergenza climatica, senza però cancellare il problema. Continuando così, nei prossimi decenni le ondate migratorie delle zone in cui il clima diventerà – letteralmente – irrespirabile potrebbero sconquassare l’ordine sociale del pianeta. Più di quanto già non lo sia.

Bisogna abbandonarsi alla catastrofe allora?

Non è certo questa la posizione di Gaël Giraud, direttore di ricerca al Cnrs di Parigi e membro del Jesuit european social center di Bruxelles, matematico, scrittore, che abbiamo incontrato all’Università Cattolica di Milano, dove ha tenuto una lezione su Costruire un mondo comune, dal titolo del suo ultimo libro (Libreria Editrice Vaticana e Piemme, 2025), prima parte di un doppio volume che nel sottotitolo recita: “E Dio non benedisse la proprietà privata”. Tutt’altro che rassegnato di fronte ai grandi problemi del mondo, l’approdo del suo discorso è quello dei beni comuni visti come risorse. Riconoscerne l’esistenza, il valore e la necessità di tutelarli in modo diverso da come si fa con i beni privati, pubblici o, “tribali”, è la chiave per affrontare con speranza i problemi di cui sopra. Per arrivarci, nel suo libro invita a percorrere un itinerario che è, al tempo stesso, ecologico, sociale, politico, antropologico e teologico. Lo ripercorriamo insieme a lui.

Il contesto ecologico come punto di partenza.

Oggi c’è la tentazione di dimenticare la policrisi ecologica ma, alcuni dati esposti tre anni fa a Washington presso il Fondo monetario internazionale ci aiutano a ricordarla. Se non faremo niente per mitigare il riscaldamento climatico, intorno al 2060 avremo un aumento medio di 2,3 gradi della temperatura: in certe zone della Terra la combinazione tra umidità e temperatura determinerà la progressiva incompatibilità con la vita umana.

Gaël Giraud alla Cattolica di Milano

Tale mix potrebbe colpire per circa un giorno su due all’anno vaste zone del sud America e l’intero territorio dell’Indonesia. Dove andranno gli oltre 280 milioni di indonesiani a quel punto? In Cina? O nell’accogliente Australia? «Avremo centinaia di milioni di rifugiati climatici».

Conseguenze: mancano acqua potabile e cibo

La siccità è un fenomeno che, come è noto, sta iniziando a colpire anche certe zone di Italia e Spagna. Inotre, secondo alcune proiezioni, la necessità irrisolta di cibo potrebbe colpire (e già colpisce) India, ancora l’Indonesia e la penisola Arabica: «Emerge l’aspetto sistemico della policrisi che collega agricoltura, acqua, energia e minerali». Un esempio che fa scuola è quello del governo tunisino che, per affrontare la crisi idrica, ha deciso di costruire un enorme desalinizzatore. Per alimentarlo ha realizzato un’a ‘enorme centrale fotovoltaica, la quale ha fatto emergere a sua volta il bisogno di un’ingente quantità minerali – terre rare – però non disponibili nel Paese: «Quando manca un aspetto, sia esso agricolo, energetico o minerario, tutto manca».

Ma è realistica la transizione ecologica?

A livello europeo sì. Lo studio Road to net zero del think tank parigino Institute Rousseau ha mostrato che al 2050 è tecnicamente possibile, contrariamente a quanto afferma ancora una parte dell’opinione pubblica. Si tratta di attuare il rinnovamento termico degli edifici, dei trasporti pubblici, specialmente delle ferrovie e dell’agricoltura sostenibile: «Questo cammino sarebbe meno costoso che non percorrerlo». È stato calcolato che costerebbe circa il 2,3% del Pil dell’Ue ogni anno fino al 2050: «Molto meno del programma Rearm Europe e dell’inazione. Il rapporto della società di riassicurazione svizzera Swiss Re ha calcolato il costo dell’inazione climatica in più del 10% del Pil dell’Ue ogni anno fino al 2050».

Come si lega questo scenario al pensiero teologico?

Questi problemi comportano una sfida antropologica ed etica, che il pensiero di Papa Francesco ha delineato in quattro documenti fondamentali: le encicliche Laudato si’ e Fratelli Tutti e le esortazioni apostoliche Querida Amazzonia e Laudate Deum: «Francesco ci ha chiamati a un cambiare l’immaginario antropologico occidentale dato dall’uomo vitruviano di Leonardo. Per tutti noi, immediatamente, rappresenta il simbolo dell’umanità, ma non può essere così». Nella raffigurazione mancano all’appello le donne, i bambini e gli anziani.

Da destra, Gaël Giraud, con Lorenzo Fazzini (Libreria editrice vaticana), Simona Beretta (direttrice del Centro di Ateno per la dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolicae) e il teologo Roberto Maier.

Inoltre, manca la natura: quest’uomo vive «in una solitudine metafisica assoluta e affronta il mondo come se potesse governare e controllare il mondo attraverso la sua scienza». Ma la natura fa parte dell’umanità e viceversa. Un altro semplice esempio aiuta a chiarire: «Un bicchiere di acqua su cinque che beviamo ogni giorno proviene dalla traspirazione degli alberi della foresta amazzonica. Oggi, mentre parliamo, una parte di noi è l’Amazzonia, noi siamo l’Amazzonia».

L’uomo europeo non coglie questa unità?

L’uomo occidentale pensa che ci sia una distinzione ontologica tra uomo e natura. Dicendo che tutto è legato, Francesco ci ha fatto capire che l’uomo vitruviano non può essere il simbolo dell’umanità intera». Tante popolazioni della Terra non la pensano così. Per esempio, in Africa il concetto Ukama afferma: «Io sono perché siamo, tutti noi, insieme. In questo noi ci sono gli altri, gli anziani già morti, la prossima generazione non ancora nata e la natura: è un’antropologia che è immediatamente una cosmologia. Costruire un mondo comune è il tentativo di dare un fondamento teologico a questa interpretazione del pensiero di Francesco».

Da dove partire?

Dalla feroce critica al cristianesimo di Giorgio Agamben, che possiamo considerare come il Celso del nostro tempo. In Homo Sacer afferma che l’origine concettuale dei nostri problemi sta nella teologia trinitaria del quarto secolo, quando i Padri della chiesa hanno posto a una distinzione teologica tra il Padre e il Figlio: «il Padre regna, ma non governa, mentre il Figlio governa, però non regna». C’è una separazione tra l’autorità (il Re) da un lato e la gestione del potere dall’altro. Non è un principio astratto e lontano da noi: teorie come la mano invisibile di Adam Smith e la banalità del male di Anna Harendt derivano direttamente da questo nodo, secondo Agamben.

Come affrontare questo nodo?

Agamben avrebbe ragione se il cristianesimo non fosse trinitario. Il filosofo, infatti, non critica il vero cristianesimo, ma un «tipo di teologia che dimentica la terza persona della Trinità». Ci aiuta, in questo, la riflessione su un episodio poco commentato nella patristica e nella teologia contemporanea: quello dell’Ascensione narrata da Luca negli Atti degli apostoli: «È qui che i discepoli chiedono a Cristo di restaurare il trono di Davide – era il programma politico del Messia – ma Gesù risponde che non è il suo ruolo quello di conoscere il tempo che il Padre nella sua sovranità ha deciso» e, ascendendo al Cielo, consegna loro lo Spirito Santo».

Come si arriva ai beni comuni?

Questo episodio lascia spazio a due interpretazioni che coesistono: una «gloriosa», l’altra «kenotica». La prima afferma che Cristo ha lasciato libero il trono di Davide perché ce n’era un altro più grande, quello universale: l’apoteosi della gloria di Cristo, in cui l’ascensione rappresenta la cima della storia. Questo significherebbe che non c’è uno spazio per la nostra storia umana, dobbiamo “solo” aspettare la fine del tempo perché tutto è compiuto.

La seconda?

È la teologia del trono vuoto, che apre la possibilità di una «storia democratica» per noi, in compagnia dello Spirito: «Il Figlio ha lasciato il trono vuoto affinché noi potessimo inventare le istituzioni politiche». Il trono vuoto non è soltanto la condizione per affidarci una modalità tecnica attraverso cui cercare una maggioranza. Significa che nella gestione del potere «non sono la tradizione, il Re o la scienza, ma la discussione tra noi sul progetto politico che vogliamo mettere in pratica a determinare il senso del vivere insieme: è il vero significato della democrazia».

Il “trono vuoto” apre lo spazio alla gestione comune dei beni?

La condivisione di tutti i beni, raccontata anch’essa negli Atti degli apostoli, non può essere relegata a leggenda, come sostengono alcune interpretazioni. Per i primi cristiani i beni comuni erano molto importanti. Ricordiamo gli episodi di Anania e Saffira – che fingono di aver consegnato alla comunità l’intero ricavato dalla vendita del loro terreno – e quello di Erode che vuole sedersi sul trono. Entrambi terminano con la morte immediata dei protagonisti. Questo significa che la Chiesa primitiva avvertiva fortemente due tipi di minacce: «La privatizzazione dei beni e l’assolutizzazione del potere tirannico». Per abitare il trono vuoto «la Chiesa vuole mettere in pratica la terza via della società civile e dei beni comuni».

Dove altro si fonda questa interpretazione?

Nell’Apocalisse (3, 20-21): «“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e cenerò con lui ed egli con me”. È il banchetto escatologico a cui siamo tutti invitati». La porta è quella del cuore: «Cristo ha lasciato vuoto il trono di David perché vuole farci sedere con lui sul trono del Padre. Se questo è vero, il potere assoluto del Padre è un bene comune: il piano del Padre è condividere il potere con suo Figlio e con noi». Analogamente, la storia è il tempo che il Padre ci ha dato per imparare a farlo, perché non siamo pronti per sederci sul suo trono: «Dio ci ha dato la storia per imparare a condividere il suo potere con lui». Anche nella parabola dei talenti emerge «l’idea pazzesca di Dio che vuole condividere il potere con noi. Per capire il piano escatologico di Dio noi abbiamo bisogno di capire i beni comuni. I beni comuni sono la categoria più importante per capire come lavorare insieme per costruire le istituzioni democratiche».

Teologia ed economia, un legame da riconoscere

Questo discorso è il tentativo di trovare un fondamento teologico ai beni comuni, che sono al centro anche di altre dottrine, come quella di Elinor Ostrom che ha vinto il Nobel lavorando su questo. Ostrom ha descritto quattro tipi di beni: privati, di club o tribali, comuni e pubblici. Questi corrispondono alle quattro categorie del diritto: res privata, res communis e res pubblica, mentre i beni tribali – che non fanno parte del diritto romano classico – sono stati introdotti nella riforma gregoriana del XII secolo. Ma questo passaggio è importante perché mostra «il filo che lega la teologia al diritto e all’economia».

La grande questione della proprietà privata

Bisogna distinguere tra concezioni diverse. Per San Tommaso (nella quaestio 66 della Summa Theologiae) «il tipo più alto di proprietà è la res communis, che fa parte del diritto naturale», mentre la proprietà privata, che non ne fa parte, è quello più basso. Però ne abbiamo bisogno, perché gestire i beni comuni insieme è difficile: «La proprietà privata per Tommaso è un mezzo efficace per ridurre la fatica umana di dover trovare continui compromessi nella gestione quotidiana dei beni comuni». Nel Seicento, il filosofo britannico John Locke sostiene «una tesi opposta alla tradizione cattolica, affermando che la proprietà privata fa parte del diritto naturale», come frutto del lavoro individuale: «Il linguaggio con cui comunichiamo, gli strumenti che usiamo non li abbiamo creati noi. Dire che il lavoro è l’origine della proprietà privata è un’illusione». La Rerum Novarum risente di queste due concezioni ed è stata scritta «con una mano che tiene conto di San Tommaso e l’altra che considera Locke, in una sintesi che richiede un’interpretazione, al pari di tutto il magistero cattolico».

Quali sono dunque i beni comuni?

Per gli economisti è difficile trovare una definizione precisa di un bene comune. Non esistono infatti beni comuni puri o beni privati o pubblici puri. Esistono beni complessi che hanno un aspetto comune, un aspetto tribale e così via. Possiamo aiutarci a individuare i beni comuni con tre elementi: risorse, comunità e regole. Le risorse includono, ad esempio, le foreste, l’acqua, il clima, la biodiversità, il fondo degli oceani, ma anche la cultura o la lingua. La comunità è quella che decide di curare tali risorse con le regole che ha scritto per gestirle.

Quanti tipi di testi esistono?

Giraud elenca quattro tipi ermeneutici di testo. C’è la legge, che si presenta «come un testo pubblico, con un senso che è, o dovrebbe essere, limpido, unico e universale, tutti i cittadini lo conoscono». Un testo privato, sostanzialmente il proprio pensiero, è quello che ha senso soltanto per la persona che lo genera. Da Cartesio a Wittgenstein, sono stati in tanti chiedersi se sia possibile avere un pensiero completamente privato. Ma è bene non allargare ulteriormente il discorso. Un testo tribale è quello dove il senso è tradizionale, può essere interpretato solo da parte di una piccola élite che ne ha il potere.

Il testo comune?

«È quello dove il senso si può trovare insieme, con l’interpretazione di tutti. È aperto al pluralismo dell’interpretazione, è un testo “democratico” a livello ermeneutico». La tesi del libro è che la Bibbia sia un testo comune. Per esempio, la parabola dei talenti di Luca è molto difficile da interpretare: «Agli studenti chiedo ogni anno: dov’è Dio in questa parabola? Ogni volta si apre un dibattito. Evidentemente, fa parte dello stile evangelico consegnare un testo in modo che sia necessario costruire un mondo del senso insieme per capirlo». Allora, conclude Giraud, anche per l’enciclica Rerum Novarum se ci sono molte interpretazioni non è una tragedia, «fa parte della tradizione cattolica concepire i testi come beni comuni, aperti all’interpretazione di ogni generazione», alla luce delle urgenze che accendono il mondo.

Resta lo spazio per una domanda su quali comunità dovrebbero occuparsi dei beni comuni.

Siamo in una situazione in cui la comunità internazionale è completamente svuotata: «Finché le agenzie principali della comunità internazionale – Nazioni unite, Banca Mondiale, Nato, Fondo monetario internazionale – saranno delle “maschere” degli Stati Uniti sarà difficile agire sui beni comuni». Abbiamo bisogno di una comunità internazionale pluralista caratterizzata dal coraggio delle scelte: un’occasione persa è stata quella del progetto Yasuní-Itt con cui l’Equador fin dal 2011 ha chiesto supporto economico e finanziario alla comunità internazionale per compensare la rinuncia a estrarre petrolio in una delle zone più ricche di biodiversità al mondo del suo territorio. Ma la strada è quella.

Come reagire?

Abbiamo bisogno di un’Europa federalista: «non possiamo a riuscire a salvarci dalla minaccia russa e da quella statunitense senza un’unità politica europea. Viviamo tutti ancora nell’orizzonte dell’accordo di Westfalia dove la comunità internazionale è composta da stati sovrani. Oggi abbiamo bisogno di un concetto diverso, di una comunità internazionale che riconosce beni comuni universali per i quali tutta l’umanità è solidale».

Foto in apertura Università Cattolica del Sacro Cuore.

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