Torinese, classe 1963, sposata, un figlio, imprenditrice. Cristina Di Bari, dal 1994 è alla guida della Tra.sma, azienda industriale di famiglia attiva in Europa nella trafilatura di fili di rame per la produzione di conduttori elettrici.
Infaticabile ed entusiasta, negli ultimi 20 anni ha dedicato, con passione e sensibilità molto del suo impegno alla filantropia secondo modelli innovativi e strategici. È presidente della Fondazione Cottino, ente filantropico di famiglia e del Cottino social impact campus, il primo campus europeo pensato, disegnato e orientato a generare, condividere e diffondere la cultura dell’impatto sociale
Presidente, cominciamo dalla domanda che facciamo a tutti i nostri interlocutori: a che cosa serve la filantropia in Italia? Nel senso di quale ruolo ha e dovrebbe avere, secondo lei?
Oggi la filantropia è il motore del cambiamento per garantire la creazione di valore per il bene comune: dalle policy fino ai comportamenti individuali. Può definire nuove rotte e progettare con le istituzioni pubbliche, il terzo settore e tutti i corpi intermedi come le università, le imprese, i professionisti e il sistema finanziario iniziative per un futuro sostenibile, inclusivo ed equo mettendo in campo le proprie risorse economiche e le proprie competenze attraverso strumenti operativi tradizionali come grant e contributi a fondo perduto ma soprattutto utilizzando gli strumenti della filantropia strategica come l’impact investing e la venture philanthropy.
Questi ultimi, devono fare i conti con un cambiamento di paradigma non facile da diffondere e comprendere su cui sono radicate delle resistenze culturali legate, se vogliamo, alla natura storica della filantropia il cui significato etimologico è “Amore per l’umanità” e la cui parola indicava nell’antica Grecia una disposizione cortese e affabile verso il prossimo, per lo più agita da istituzioni religiose. Oggi dobbiamo accelerare l’evoluzione progressiva del ruolo e degli strumenti delle Fondazioni attraverso l’impiego di capitali pazienti per investimenti in progetti nell’economia reale a forte impatto sociale. Nella nostra Fondazione che è giovane e a matrice imprenditoriale questi concetti hanno trovato consensi e forma.
Lei è un’imprenditrice e presiede una fondazione familiare, voluta da sua zia Annamaria e da suo zio, l’ingegner Giovanni Cottino, imprenditore illuminato e visionario, desideroso di restituire – come dice in un toccante video – e di aiutare chi ha bisogno e i giovani attraverso l’educazione. Quanto è impegnativo guidare il progetto di un altro, anche se immagino che non ne sia stata estranea? Che cosa richiede?
La Fondazione Cottino è nata nel 2002 e fin dalla sua progettazione e creazione lo zio Giovanni Cottino mi ha incaricato di gestirla, sotto la sua guida attenta e concreta, così come avvenuto per l’attività imprenditoriale. Non sono dunque certamente estranea ma anzi credo di esserne sempre stata un cuore pulsante insieme agli altri consiglieri di famiglia e consiglieri indipendenti che sin dal primo giorno sono stati con me in questa iniziativa. Guidare oggi, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2022, la fondazione di famiglia, significa assumersi la responsabilità di dare continuità a una visione, ma anche di aggiornarla e renderla efficace rispetto al contesto attuale. Per me non si tratta di “eseguire” un progetto altrui, ma di coltivare una missione che sento profondamente mia. Nel caso della Fondazione Cottino, l’impegno è duplice: da un lato custodire e onorare l’intuizione di mia zia e di mio zio, dall’altro costruire le condizioni perché quella visione possa tradursi in progetti concreti, misurabili e sostenibili nel tempo.

Non si tratta di replicare ciò che è stato fatto, ma di interpretarne i principi – la fiducia nell’educazione, il sostegno ai giovani, l’idea di impresa come strumento di progresso sociale – e trasformarli in iniziative capaci di rispondere alle sfide di oggi. Richiede ascolto, discernimento, e anche il coraggio di fare scelte che magari loro non avrebbero potuto immaginare, ma che sono coerenti con quello che ci hanno trasmesso: fiducia, visione e responsabilità. Questo richiede competenze gestionali, un forte orientamento all’impatto e la capacità di connettere mondi diversi: l’impresa, l’accademia, le istituzioni e il Terzo settore.
È un lavoro che richiede visione strategica, governance solida e, soprattutto, la consapevolezza che il patrimonio più importante da preservare è quello valoriale. La Fondazione deve saper essere un ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà, generando impatto reale e duraturo per la comunità.
La sua grande esperienza imprenditoriale le serve nell’azione filantropica o, paradossalmente, la frena nel senso che possono esserci, cioè, scelte del filantropo che l’imprenditore non prenderebbe mai?
Ripeto spesso che è più facile fare impresa che fare filantropia, gli obiettivi della prima sono noti e definiti mentre la seconda ha perimetri “flessibili” e le risposte da mettere in campo per “fare bene il Bene” devono di volta in volta adeguarsi ai bisogni, al contesto e alla velocità di azione.
La mia esperienza imprenditoriale è in ogni caso un patrimonio prezioso anche nell’attività filantropica, perché mi ha insegnato a lavorare con metodo, a valutare le scelte in termini di sostenibilità e impatto, e a ragionare in una logica di lungo periodo. L’approccio imprenditoriale aiuta a impostare progetti solidi, con obiettivi chiari e misurabili, e a garantire che le risorse siano utilizzate in modo efficace.
Allo stesso tempo, la filantropia richiede uno sguardo diverso: mentre l’impresa si misura principalmente con il ritorno economico, la fondazione lavora per un ritorno sociale e culturale. Questo implica scelte che l’imprenditore, da solo, forse non prenderebbe mai, perché meno immediate in termini di risultati tangibili o più rischiose in termini di ritorno. Ma è proprio qui che si trova la ricchezza del ruolo: integrare il rigore e la disciplina del mondo imprenditoriale con la libertà e il coraggio tipici della filantropia.
Credo che il punto non sia scegliere tra i due approcci, ma saperli tenere insieme: portare nella filantropia la capacità di “fare” dell’impresa, e nell’impresa lo spirito di responsabilità verso la comunità che appartiene alla filantropia.
Quale dei vostri progetti dell’ultimo periodo, secondo lei, rappresenta al meglio la vostra realtà ma – se possibile – anche i suoi personali valori e la sua sensibilità?
Tra i progetti più recenti, il Cottino social impact campus rappresenta senza dubbio la sintesi più forte della nostra identità e anche dei miei valori personali. È un luogo dove si sperimenta un nuovo modo di fare formazione, che mette l’impatto sociale al centro e crea connessioni tra università, impresa, istituzioni e società civile. Per me significa dare ai giovani e in generale ai singoli individui strumenti concreti per leggere la complessità e agire da protagonisti del cambiamento.

In parallelo, la nostra acquisizione della Istud, la prima business school italiana, fondata nel 1970 da Confindustria e un gruppo di grandi aziende italiane e multinazionali per contribuire allo sviluppo della cultura d’impresa e del management nel paese, ci consente di portare questo approccio anche dentro la formazione per giovani neolaureati e manager, avvicinando il mondo delle imprese a quello della sostenibilità e dell’innovazione sociale.
Non posso non citare, perché fortemente voluto dal fondatore, il progetto Giovanni Cottino Learning Center: un edificio emblematico attualmente in costruzione grazie a un accordo pubblico-privato (Fondazione Cottino – Politecnico di Torino), che sorgerà nella Cittadella Politecnica con una superficie complessiva di circa 4mila metri quadrati, su tre livelli con spazi per la didattica sperimentale, aule modulabili, una sala conferenze, spazi espositivi, uffici, aree relax e spazi comuni che favoriranno l’interazione sociale e culturale.
In tutti questi progetti c’è un filo conduttore molto chiaro: la convinzione che educazione e formazione siano la leva più potente per trasformare la società.

Così come creare luoghi ove queste trasformazioni possono avere inizio, mi riferisco ad esempio ai nostri progetti quali la realizzazione della Scuola Materna Cecchi-Cottino nelle Marche o alla costruzione della sala polivalente per le attività dedicate ai bambini e agli adolescenti di Onda Giovane Salus a Torino.
Personalmente, ritrovo in questi progetti il valore che più sento mio: la responsabilità di creare opportunità per le nuove generazioni, accompagnandole a sviluppare competenze ma anche consapevolezza, coraggio e senso etico. È un’eredità della visione di mio zio, ma è anche la mia sfida quotidiana come imprenditrice e come presidente della Fondazione.
Voi rappresentante un unicum nel mondo filantropico, nel senso che dalla Fondazione nasce anche l’esperienza del Campus. Come si connettono queste realtà? Pensa che anche questo indichi un percorso per la filantropia ossia diventare sempre più impresa sociale?
La nascita del Cottino social impact campus dalla Fondazione è stata una scelta precisa: volevamo andare oltre la semplice erogazione e costruire un’infrastruttura capace di generare impatto in modo strutturale. Il campus, infatti, è un vero e proprio “investimento filantropico” che noi definiamo “l’azione imprenditoriale della Fondazione Cottino”: non un progetto a termine, ma un asset che produce valore sociale nel tempo, formando persone e organizzazioni in grado di trasformare la società.
Ci poniamo le stesse domande di un investitore: qual è l’impatto generato? Come possiamo moltiplicarlo? Quale ritorno produce, non in termini economici ma per la comunità?
Cristina Di Bari, presidente Fondazione Cottino
Il nostro approccio è quello dell’impact investing: impieghiamo risorse non solo per sostenere bisogni o cause, ma per sviluppare modelli scalabili, misurabili e sostenibili. Ci poniamo le stesse domande di un investitore: qual è l’impatto generato? Come possiamo moltiplicarlo? Quale ritorno produce, non in termini economici ma per la comunità? In questo senso, Fondazione, Campus e Istud rappresentano un modello ibrido: la prima garantisce la missione e la visione, i secondi ne sono il veicolo operativo, capace di innovare e misurare i risultati mirando a una sostenibilità economica nel tempo. Questa connessione deve essere, come già ho spiegato prima, la direzione verso cui deve muoversi la filantropia: diventare sempre più strategica, orientata all’impatto e capace di usare logiche da investitore per generare cambiamento reale.
La collaborazione è oggi una buona pratica a vari livelli filantropici, non solo italiani. Voi siete in Assifero, anche col ruolo importante del vostro direttore generale, Giuseppe Dell’Erba. Lei è personalmente impegnata in uno degli enti di Fondazione Crt, ossia nel mondo Acri. Pensa che si vada sempre più verso un’integrazione di questi mondi?
Sì, credo che la traiettoria sia chiara: la collaborazione tra mondi filantropici diversi non è più un’opzione, ma una necessità. Oggi le sfide sociali, ambientali ed educative sono troppo complesse per essere affrontate da attori isolati. L’integrazione tra fondazioni di famiglia, fondazioni d’impresa, fondazioni di origine bancaria e reti associative come Assifero o Acri permette di condividere competenze, risorse e visioni, creando un impatto molto maggiore di quello che ciascuno potrebbe generare da solo. Per noi di Fondazione Cottino, essere parte attiva di Assifero, anche con il ruolo di primo piano del nostro direttore generale, significa portare il nostro contributo innovativo dentro una rete nazionale di sperimentazione e riflessione comune e potersi confrontare ed arricchirsi anche dalle esperienze degli altri, così come essere parte di Impact Europe. Allo stesso modo, il mio impegno personale come presidente della Fondazione Sviluppo e Crescita Crt e consigliere di Fondazione Crt mi consente mettere a disposizione la mia esperienza imprenditoriale, la mia familiarità agli strumenti della venture philanthropy favore della terza fondazione bancaria italiana che antesignana, nel 2007 ha creato una fondazione che utilizza questi strumenti innovativi per dare risposte sociali costruendo sinergie molto concrete col territorio.

Quello che vorrei sempre di più è un ecosistema che si muove verso forme di collaborazione strutturate e strategiche, non solo partnership occasionali: si condividono modelli di valutazione, pratiche di impact investing, strumenti di governance. Questo è il futuro della filantropia: lavorare insieme per amplificare l’impatto, facendo rete in modo intelligente e orientato ai risultati.
Una domanda alla donna, Cristina Di Bari. Ci sono, o ci sono state, letture, opere, incontri, che hanno maggiormente formato la sua idea di filantropia? Qualcosa o qualcuno che le abbia confermato l’importanza di una visione del mondo in cui “voler bene all’uomo”, come l’etimologia spiega, è centrale?
Ci sono stati diversi momenti e incontri che hanno contribuito a formare la mia idea di filantropia, ma se dovessi sceglierne alcuni direi che sono stati soprattutto le persone e le esperienze concrete a fare la differenza. Crescere accanto a mia zia e a mio zio mi ha permesso di capire che la filantropia non è solo generosità, ma progettualità: è avere visione, responsabilità e capacità di trasformare risorse in opportunità concrete per gli altri.
Tra le figure che mi hanno profondamente influenzato c’è Angelo Miglietta, la cui esperienza e riflessione sulla filantropia – in particolare sulla venture philanthropy – mi hanno insegnato quanto sia importante coniugare etica e rigore nella gestione dei progetti filantropici. Anche il libro scritto a lui e da Giovanni Quaglia, I nuovi orizzonti della filantropia (Cittadella Editrice), così come altri testi sull’evoluzione della filantropia internazionale e la partecipazione convegni sul tema, hanno contribuito a rafforzare questa visione, mostrando come la filantropia oggi possa essere uno strumento strategico di cambiamento sociale, capace di generare impatto duraturo soprattutto se misurabile, come ho imparato da Mario Calderini. Persone che mi hanno insegnato che filantropia e rigore non sono in contrasto: l’una senza l’altro rischia di essere inefficace. In fondo, la mia convinzione più forte è che la filantropia diventa davvero significativa quando mette al centro l’uomo, la comunità e la capacità di trasformare le idee in azioni concrete. È un approccio che unisce cuore e mente, valori ed efficacia, e che guida ogni scelta che faccio nella Fondazione.
Scopri i numeri della filantropia e i 100 profili di chi investe nel bene comune su VITA magazine di ottobre ‘‘Nella testa dei filantropi”
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