La riservatezza di Marina Nissim è direttamente proporzionale al suo ruolo di imprenditrice e quindi elevatissima: guida infatti una delle ultime multinazionali italiane, il Bolton Group, da oltre 3,5 miliardi di fatturato, e Sergio Mattarella le ha voluta nominare, nel 2024, Cavaliere del lavoro. Ha accettato però di ragionare con VITA dell’impegno filantropica che la vede protagonista con la Bolton for education foundation da lei istituita nel 2019.
Presidente, a che cosa serve la filantropia in Italia?
La filantropia, qui come altrove, è un modo molto umano di partecipare alla vita delle comunità per dare risposte a bisogni, piccoli o grandi, che riguardano persone in condizioni di fragilità, che stanno vivendo situazioni di difficoltà, strutturale o temporanea. Questa partecipazione può concretizzarsi in modi diversi, dall’aiuto di un volontario al disegno di un programma di intervento strutturato e di lungo termine da parte di una fondazione, dotata di mezzi economici e competenze professionali. È legittimo parlare di filantropia in entrambi i casi – è bene ricordarselo sempre – e la radice di fondo rimane la stessa, che si abbia a disposizione solo il proprio tempo o risorse economiche importanti. E’ altrettanto importante ricordare che la filantropia ha anche un suo ruolo specifico.
Quale?
Gli attori filantropici agiscono, infatti, con responsabilità, ma senza dover rispondere a nessuno tranne che ai propri fondatori o, eventualmente, a un consiglio di amministrazione. Possono permettersi quindi il privilegio di sperimentare e fallire. Il pubblico è naturalmente meno propenso perché risponde all’elettorato, il for profit ha altri obiettivi. Non si tratta di sostituirsi allo Stato, ma di affiancarlo con approcci più agili o meno esplorati. In questo la filantropia, soprattutto quella familiare, si trova nella migliore posizione per comprendere e affrontare i rischi di sperimentare nuovi interventi sociali, ovviamente alla luce di precise competenze tecniche e con la totale consapevolezza del contesto di riferimento.

È stato ciò che ha mosso lei e la sua famiglia?
Quando nel 2019 abbiamo deciso di dare forma stabile e strutturata alle attività filantropiche della nostra famiglia, costituendo Bolton for Education Foundation, lo abbiamo fatto proprio con questa convinzione: che la filantropia potesse essere uno spazio di libertà e di visione, dove sperimentare, ascoltare, e cercare di contribuire al bene comune.
Lei ha una visione internazionale per la sua attività di imprenditrice, ci sono modelli filantropici a cui potremmo ispirarci maggiormente o c’è una “via italiana” all’operare per il bene?
Viviamo in un Paese ricco di competenze e creatività, ma anche segnato da drammatiche disuguaglianze e fragilità. In questo contesto, penso che la filantropia possa agire come laboratorio di pensiero, di approfondimento, di sperimentazione, di supporto ad un terzo settore capace e incisivo. Ritengo anche che la filantropia italiana debba continuare a evolversi, con coraggio e visione, più di quanto abbia fatto in passato. Mantenere vive le proprie radici culturali e civili è fondamentale, ma lo è altrettanto aprirsi al confronto internazionale, alle innovazioni che vengono da sistemi filantropici più avanzati, alla costruzione di pratiche sempre più trasparenti e condivise. In alcuni paesi il dibattito sugli obiettivi, sulle modalità operative, sulla relazione con il Terzo settore e con il mondo della ricerca sono più avanzati e più vivaci. Le proposte e le sperimentazioni sono diverse e offrono spunti preziosi per affrontare la complessità dell’agire filantropico.
Dunque non esiste un modello universale
No e, inoltre, i bisogni sociali si evolvono velocemente: ogni fondazione costruisce un proprio modo di lavorare, coerente con le proprie convinzioni, identità e ambizioni, adattando teorie e pratiche alle specificità del contesto sociale e territoriale in cui opera e al passo con un mondo che cambia di continuo. Per questo, come Fondazione, abbiamo sviluppato un nostro personale modo di operare, frutto di esperienze maturate e di una continua riflessione sul ruolo che vogliamo avere. Dalla professionalizzazione del team di lavoro alla scelta di orizzonti temporali di lungo periodo, dalla decisione di non ricorrere a bandi come modalità di selezione e finanziamento delle iniziative alla ricerca di relazioni paritarie con gli enti con cui collaboriamo, sono molte le caratteristiche che perseguiamo come identitarie, nella convinzione che il modo di operare sia altrettanto quanto ciò che facciamo.

Essere un ente filantropico oggi richiede, in chi lo governa, capacità e competenze. La aiuta la sua grande esperienza imprenditoriale?
Penso che la filantropia, oggi, richieda un equilibrio delicato tra visione e concretezza. Non basta più la generosità, né l’idea — pur nobile — di restituzione: servono competenze, metodo, capacità di leggere la complessità e di costruire strategie di lungo periodo. In questo senso, la mia esperienza imprenditoriale mi ha aiutato molto. Mi ha insegnato a lavorare per obiettivi, a prendere decisioni anche in contesti incerti. E soprattutto, mi ha trasmesso l’importanza di avere al mio fianco team competenti e motivati, capaci di portare avanti iniziative ambiziose con rigore e passione. Detto questo, credo anche che la filantropia abbia bisogno di uno sguardo differente, più aperto e meno orientato al risultato immediato, capace di mettersi in discussione, di ascoltare, e di imparare ogni giorno.
Quale dei vostri progetti dell’ultimo periodo, secondo lei, rappresenta al meglio la vostra realtà ma – se possibile – anche i suoi personali valori e la sua sensibilità?
Senza dubbio l’iniziativa Masì, che in greco moderno (la famiglia Nissim è originaria di Salonicco, ndr) significa “insieme”, è quella che sento a noi più vicina. Si tratta di un programma che nasce da un’idea semplice, ma potente: investire nella didattica quotidiana, quella che accade ogni giorno nelle aule, con i ragazzi. Abbiamo scelto di intervenire in alcuni Istituti comprensivi pubblici di Palermo, con l’obiettivo di arricchire l’offerta educativa attraverso la presenza di educatori che affianchino i docenti, portando competenze nuove e complementari e stiamo avviando l’intervento anche a Roma.
Che cosa la convince di Masì?
Quello che mi ha colpito fin da subito è il modo in cui educatori e docenti lavorano insieme: non come corpi estranei, ma fianco a fianco, in un vero lavoro “a quattro mani”. L’intento è riconquistare l’interesse degli studenti, riavvicinarli anche fisicamente alla scuola, migliorare il loro benessere in classe e, soprattutto, rafforzare gli apprendimenti. Masì rappresenta per me l’idea di scuola come comunità viva, dove si cresce insieme, dove si ascolta, si accoglie e si costruisce fiducia.
Sono convinta che l’educazione sia da sempre il vero perno della società, fonte di conoscenza, apprendimento, consapevolezza, senso civico, dignità e sviluppo delle persone e delle loro comunità.Marina Nissim, presidente Bolton Foundation for Education
Vi siete posizionati sul grande tema dell’educazione. Lo avete fatto da subito, con un claim molto forte e suggestivo. Possiamo ricordare ai lettori quale sia, secondo lei, l’urgenza di questo tema?
“Ci sono molte strade per costruire il futuro. Noi abbiamo scelto l’educazione”. È la frase che sintetizza l’impegno di Bolton for Education Foundation. Sono convinta che l’educazione sia da sempre il vero perno della società, fonte di conoscenza, apprendimento, consapevolezza, senso civico, dignità e sviluppo delle persone e delle loro comunità. Più che di urgenza parlerei di prospettiva di lungo periodo. Scegliere l’educazione come tema unico e centrale delle nostre attività filantropiche è stata una scelta naturale.

La collaborazione è oggi una buona pratica a vari livelli filantropici, non solo italiani. La vede come un’opportunità o come una fatica necessaria?
Penso che la collaborazione sia una grande opportunità, ma solo quando nasce da intenti condivisi e da una visione comune.
Altrimenti?
Altrimenti rischia di diventare una fatica sterile, fatta di compromessi formali e di relazioni sbilanciate. Da quando la Fondazione ha iniziato a operare, 5 anni fa, abbiamo scelto di investire tempo ed energie nel costruire collaborazioni autentiche, basate sulla fiducia reciproca. In particolare, il rapporto con le organizzazioni non profit è per noi centrale e crediamo si debba basare sull’ascolto, sul rispetto delle competenze e sull’assenza di dinamiche di controllo. Per questo, ad esempio, abbiamo deciso di rinunciare a forme tradizionali di rendicontazione contabile e amministrativa. Preferiamo lavorare sostenendo le organizzazioni nel rafforzare ciò che già fanno bene, senza appesantirle con burocrazia o richieste formali. Collaborare, per noi, significa creare alleanze che liberano energie, non che le imbrigliano. È un lavoro delicato, che richiede tempo, fiducia e coerenza.
Dove ha “imparato” la filantropia, Marina Nissim?
I miei genitori si sono impegnati tutta la vita nel finanziamento alla ricerca medico-scientifica, hanno supportato per anni il Teatro alla Scala e sostenuto molte altre iniziative filantropiche. Chi, come me, è nato in una famiglia in cui la filantropia ha avuto un ruolo così centrale ha probabilmente assorbito naturalmente la “normalità” della pratica filantropica e il senso di responsabilità di chi ha possibilità economiche. È sicuramente a loro che devo l’importanza che attribuisco alla filantropia.
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