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Lavoro sociale

Dopo le dimissioni, un homeless dove va? Ecco il post acute dove si curano persone, non pazienti

di Antonietta Nembri

Quando una persona senza dimora viene dimessa dall'ospedale, è evidente che non può tornare in strada: ma dove va? Il post acute di via Mambretti, a Milano, è nato nel 2014 come luogo in cui accogliere senza dimora e fragili che hanno bisogno di proseguire le cure dopo un ricovero. La struttura è gestita da Fondazione Progetto Arca, ha venti posti letto e un'équipe di 15 persone tra medici, infermieri, Oss e assistenti sociali. Lo scorso anno sono state 255 le persone accolte. Viaggio in un luogo che mette al centro della cura la relazione con le persone

In via Mambretti, periferia nord di Milano, c’è un luogo che è un unicum. È il reparto “post acute” per homeless di Progetto Arca. Stiamo parlando di una realtà che assiste H 24, 7 giorni su 7, le persone senza dimora dimesse sì dagli ospedali e dai pronto soccorso, ma che hanno bisogno di proseguire le cure. 

L’origine del progetto

Il progetto, nato da Medici senza Frontiere, è stato avviato nel gennaio 2014, con Fondazione Progetto Arca che ne ha poi proseguito la gestione fino a oggi. Il post acute solo nel 2024 ha accolto 255 persone. Sorge accanto al centro di accoglienza della fondazione, con cui condivide il cortile. Ma saliti i primi gradini ci si accorge di entrare in un luogo diverso. In fondo al corridoio, dopo la stanza d’ingresso con i tavoli della mensa, c’è la stanza dei medici. Lungo le pareti si aprono le porte delle stanze di degenza. I letti sono quelli di un ospedale. Dalle finestre entra una luce chiara.

Il salone d’ingresso del post acute

È qui che incontriamo Elio Renesto, medico in pensione dopo una vita al reparto di Medicina dell’Ospedale Sacco. Al post acute di Progetto Arca è arrivato a metà del 2016. «Non è stato il mio primo approdo dopo la pensione», ammette Renesto, 75 anni. «Ho sempre fatto l’internista, per cui nei miei primi anni da pensionato ho continuato a lavorare in un ambulatorio dove pagava chi poteva. Qui sono entrato grazie a un amico che mi ha chiesto di sostituirlo “solo per pochi giorni”». 

Di fronte, da sinistra Irene Pomarica ed Elio Renesto – foto dell’autrice

Non è andata esattamente così: il dottor Renesto infatti è ancora in via Mambretti. «Il primo istinto è stato quello di pensare “sono matti, non verrò mai a lavorare qua”. Poi però mi sono detto che io professionalmente ero in grado di rispondere al bisogno di queste persone, che sono pazienti complessi», racconta. «A 40 anni sono già cronici, di over 70 ne vediamo pochi, spesso sono pluripatologici e hanno bisogno di pluriterapie». 

Post acute, un modello all’avanguardia

Renesto spiega come gli homeless siano pazienti che hanno difficoltà a curarsi da soli e che in via Mambretti non si tratta solo di far fare una convalescenza, ma di una vera e propria medicina.
«La cosa che mi ha colpito immediatamente è che questo è un progetto fantastico, nel senso che già anni prima rispetto alle Case di comunità e agli Ospedali di comunità si è intuito e si è scelto di realizzare un reparto per fragili sul territorio». Il post acute in sostanza «già nel 2016 era un modello di medicina sul territorio, con in più un’altra caratteristica: la fragilità estrema». 

Simona Spalenza con un paziente

Rispondendo ad una necessità reale, con un servizio che non esisteva prima, il post acute di via Mambretti è diventato in pochissimo tempo un punto di riferimento per Ats e Comune di Milano nello snodo della cura delle persone più fragili del territorio milanese.

Per il medico del resto «andremo sempre più verso una medicina della povertà. L’università dovrebbe introdurre un nuovo corso, dedicato alla medicina della fragilità, perché al di là dei senza dimora ci sono tantissime persone al limite della povertà che smettono di curarsi, che non hanno nessuno che le curi, che le porti dal medico. Molti sono anziani, ma non possono permettersi di andare in Rsa». 

Andremo sempre più nella direzione di una medicina della povertà. L’università dovrà fare un nuovo corso, perché al di là delle fragilità dei senza dimora ci sono tantissime persone al limite della povertà che smettono di curarsi o che non hanno nessuno che le porti dal medico. Sono anziani e non possono andare in Rsa

Elio Renesto, medico

Tornando ai pazienti di via Mambretti, Renesto sottolinea che per molti di loro «il medico di base è di fatto il pronto soccorso. C’è tutta una popolazione ormai abituale dei pronti soccorso» e ricorda che «qui le persone non vengono solo per la convalescenza, questo è un reparto post acute dove le persone possono fare una terapia con farmaci solo ospedalieri. Se uno dovesse restare in ospedale tutto il tempo di questa terapia – 40, 50 giorni – i costi sarebbero elevatissimi, ma grazie alla nostra presenza e al fatto che Ats ci permette l’uso di questi farmaci ospedalieri, da una parte si libera un letto e dall’altra si portano avanti cure salvavita». 

Tutto perfetto allora? No, perché non è semplice curare gli homeless: «È una popolazione difficile, ci sono anche quelli non riusciamo a convincere a rimanere per finire le terapie. Appena stanno un po’ bene se ne vanno», osserva ancora Renesto. 

Per il tempo necessario

Il medico racconta che gli inizi sono sempre un po’ complicati e di come per alcuni pazienti sarebbe necessario un post post acute. «I primi giorni sono sempre di diffidenza perché sono persone autoconservative, hanno la loro idea e vogliono salvare se stessi da qualunque altra cosa. Poi capiscono che qui siamo disponibili a rispondere al bisogno non per qualche giorno, ma per tutto il tempo che sarà necessario. Poi con il tempo acquisiscono fiducia perché capiscono che lo facciamo in uno stile, una modalità, un’attenzione un po’ diversa». Quale? «Noi la chiamiamo cura della persone, non cura del malato».

Prendersi cura a 360 gradi

Attenzione alla persona a 360 gradi, insomma. Che è poi quello che servirebbe anche fuori da via Mambretti. Al post acute di Progetto Arca, a coordinare gli infermieri da dieci anni c’è Simona Spalenza, una lunga esperienza sul territorio e in ospedale. «Per lavorare qui l’idea dell’aiutare gli ultimi in situazioni così particolari devi averla dentro. Non puoi basarti sulla bellezza del luogo: la bellezza è quella delle persone che stanno qua dentro e noi siamo chiamati a rimettere un po’ di bello da una parte e dall’altra».

Simona Spalenza con un paziente lungo il corridoio della struttura

In astinenza da post acute

Tra le persone del Centro post acute c’è Irene Pomarica, un’infermiera professionale di 26 anni. Originaria della Puglia, è approdata a Milano in via Mambretti in piena pandemia. «È stato il mio primo lavoro. Per un anno ho lavorato qui». Vinto un concorso, però, Irene è andata a lavorare in un pronto soccorso. Ma dopo tre anni, racconta Irene con un sorriso enorme, «mi sono licenziata e a gennaio di quest’anno sono tornata qui». Perché lo ha fatto? «Perché mi sono innamorata del progetto. Mi ha fregato il sentimentalismo. Il pronto soccorso è stato per me un processo di apprendimento iper accelerato. Dopo questi tre anni mi sono presa una pausa di riflessione e il primo posto che ho ricontattato per lavorare era proprio questo. Ho chiamato Simona (Spalenza, nda) dicendo: Simo, io sono in astinenza da post acute. Come facciamo? Mi sono licenziata… ed eccomi qui».

Al post acute misurare la pressione è un’occasione
La relazione con le persone
Un volontario con uno dei pazienti
Il momento della visita

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La relazione con la persona vince

A farla innamorare è stata una cosa semplicissima: «Il diritto alla cura per tutti. In Italia le cure le diamo a tutti, per carità, ma qui c’è un’attenzione a 360 gradi, c’è un vero lavoro d’équipe che non ho trovato altrove», spiega. E aggiunge «c’è una relazione con la persona che prescinde dalla pura azione infermieristica, c’è un ascolto diverso». «E questo perché», aggiunge Spalenza, «relazionarsi con questo tipo  di utenza è complicato. Incontri tante sfaccettature e tante fragilità dietro alle quali non sai cosa ci sia». 

La coordinatrice osserva infine che la realtà di via Mambretti è «un punto di ristoro, di ripartenza. Io devo mettere le persone nella possibilità migliore per ripartire, però devo anche accettare il fatto che qualcuno non voglia ripartire. Occorre imparare a mediare gli aspetti sanitari e sociali».

Nell’immagine in apertura il dottor Renesto con un paziente al centro post acute di Progetto Arca a Milano – tutte le foto di Simone Lazzaretto

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