Presa diretta

I miei 5 giorni con 110 attivisti nonviolenti in Ucraina: perché VITA era su quel treno

di Anna Spena

Da ieri si rincorrono le notizie: un treno partito da Kyiv e diretto in Polonia si è ritrovato sotto un attacco russo, con droni e missili, a Leopoli. In quei vagoni c'erano anche 110 attivisti italiani del Mean-Movimento europeo di azione nonviolenta. Non è stato un attacco al treno con 110 italiani, non è questa la notizia. Non è questo che ha valore. La notizia è che è passata un’altra notte di guerra, l’ennesima in Ucraina, e che questo conflitto diventa sempre più feroce. Da Kyiv a Kharkiv la delegazione ha incontrato la società civile. Chiedono supporto, libertà e vogliono riprendersi la loro quotidianità che oggi è scandita solo dal suono degli allarmi

Per capire l’inizio, per spiegare le ragioni, partiamo dalla fine. La notte tra sabato 4 e domenica 5 ottobre tutta l’Ucraina è stata pesantemente bombardata: oltre 500 droni e 50 missili balistici sono caduti non solo sulle infrastrutture militari, ma sulle teste dei civili. Non è una novità: è così che gli ucraini vivono da quando è iniziata l’invasione russa del Paese. Le bombe hanno distrutto anche le infrastrutture energetiche, in Ucraina sta iniziando il quarto inverno di guerra e il freddo è un’arma.

Quella notte ha segnato un altro primato: c’è stato il più grande attacco verso l’Oblast di Leopoli, nell’Ucraina Occidentale, a pochi chilometri dal confine con la Polonia, tanto che i jet dell’aeronautica polacca sono decollati per garantire la sicurezza aerea e i sistemi radar a livello massimo. Il tonfo dei missili e dei droni che cadevano, e il rumore della contraerea ucraina che provava a neutralizzarli, mi ha svegliato poco prima delle cinque del mattino.

Su quel treno c’ero anch’io

Ero su una cuccetta di un treno notturno partito la sera dalla stazione centrale di Kyiv – prima ancora ero stata a Kharkhiv e Izyum – per tornare a Przemyśl, un comune di confine del voivodato della Precarpazia, in Polonia. Da quando è iniziata la guerra lo spazio aereo ucraino è chiuso, tutto il Paese si sposta sui binari. Una linea infinita che collega l’Ovest all’Est, il Nord al Sud. L’arrivo a Przemyśl era previsto per le sei del mattino successivo, ma in Polonia siamo arrivati solo molte ore dopo. A Lviv, Leopoli, il treno infatti è rimasto fermo. A pochi chilometri da noi – quattro o cinque, come si sarebbe capito poco dopo – 78 droni e 12 missili andavano a segno e riempivano il cielo con il rombo della morte e lo illuminavano con un luce a giorno intermittente e tetra.

Una l’indicazione da seguire: essere pronti a una fuga leggera. Non ce n’è stato bisogno: dopo una sosta lunga siamo ripartiti. Secondo le autorità era più sicuro superare quella zona il prima possibile, più che restare fermi. Solo poche ore prima, mentre viaggiavamo su un treno che da Kharkiv ci riportava a Kyiv, due attacchi russi avevano colpito dei treni a Shostka, nella regione di Sumy: un morto e 30 feriti. Poche ore dopo l’attacco su Lviv, invece, avremmo saputo che Anastasia Hrytsiv, 15 anni, che abitava in un borgo alla periferia di città, lungo la strada per la frontiera polacca è morta insieme alla mamma e a due altre persone della sua famiglia in quella che è considerata una delle zone più sicure del Paese. Prima di ripartire ho infilato la testa fuori dalla porta del treno fermo sui binari. Era sempre buio, fuori il cielo tuonava ancora, la stazione di Lviv era fumosa e cupa.

La stazione di Lviv la notte dell’attacco

Su quel treno viaggiavo con altri 110 italiani. Attivisti del Mean – Movimento europeo di Azione nonviolenta, alla sua quattordicesima missione nel Paese, che qui ha organizzato un Giubileo della Speranza. Un momento per credenti e laici, un modo per testimoniare con i corpi la vicinanza ad un popolo che chiede libertà contro la barbara aggressione russa. La società civile italiana che incontra quella ucraina perché «la resistenza non è un fatto solo di armi, di finanziamenti e di intese tra governi, ma è soprattutto un sentimento popolare che porta gli ucraini ad andare avanti nelle loro esistenze quotidiane nonostante tutto», ha detto Angelo Moretti, uno dei portavoce del Movimento. «Ed è con gli ucraini e dall’Ucraina che il Mean chiede all’Europa di essere accanto agli ucraini fino a quando sarà necessario e di istituire ed inviare i Corpi Civili di Pace».

Non è stato un attacco al treno con 110 italiani, non è questa la notizia. La notizia è che è passata un’altra notte di guerra, l’ennesima in Ucraina e che questa volta un ampio gruppo di persone italiane ha capito – in modo molto fisico, condividendo quell’esperienza – che forma ha la paura

Non è stato un attacco al treno con 110 italiani, non è questa la notizia. Non è questo che ha valore. La notizia è che è passata un’altra notte di guerra, l’ennesima in Ucraina e che questa volta un ampio gruppo di persone italiane ha capito – in modo molto fisico, condividendo quell’esperienza – che forma ha l’ombra della paura che aleggia sui corpi degli ucraini.

L’inizio del viaggio. L’arrivo della delegazione in Polonia/foto Piero Vitti

VITA viaggiava con quella delegazione perché come in tutte le guerre e in tutti i conflitti, per capirli bisogna osservare come si trasforma la vita quotidiana. E più di tutto bisogna ascoltare, ascoltare e basta, quello che le persone hanno da dire, più che dire noi. Questo ce l’ha insegnato Riccardo Bonacina, che 31 anni fa ha fondato questo giornale e che è stato tra i promotori del Mean, nato pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Così inizia il quarto inverno di guerra 

Da Przemyśl, nel voivodato della Precarpazia in Polonia, siamo saliti su un treno notturno: prima tappa Kyiv. In Ucraina si arriva sui binari e tutti sui binari lì si muovono. Lo spazio aereo è chiuso, le distanze sono lunghe, gli spostamenti in macchina sono più pericolosi. Quella di Przemyśl oggi, di sera, è una stazione semideserta. Sono lontane le immagini delle sale piene di profughi, donne, anziani e bambini. Gli uomini no, loro l’Ucraina non potevano lasciarla allora e non possono farlo neanche oggi: c’è la legge marziale. 

Metropolitana di Kyiv

In Ucraina fa già freddo. La stazione di Kyiv sembra quella di una capitale normale, in un giovedì mattina lento. Sotto, gli allarmi hanno ricominciato a suonare. E nelle ultime settimane suonano più a lungo e più spesso. Dicono che la guerra sia in una nuova fase, più violenta, che non risparmia le città. La metropolitana di Kyiv è profonda, nel suo punto più basso, 105 metri. Una città sotterranea che con l’intensificarsi degli attacchi è tornata ad essere abitata. L’immagine che restituisce oggi è di persone accovacciate, con la testa schiacciata dentro il telefono o in un libro. Gruppi di donne sedute su sgabelli pieghevoli, mentre aspettano la fine degli allarmi. Ma gli allarmi non smettono. In tre anni, a Kyiv sono stati distrutti 3mila edifici, molti dei quali già ricostruiti. Secondo stime attendibili, le vittime civili nella sola capitale sarebbero circa 4mila. 

La  guerra non si risolve con mezzi politici né tanto meno con i mezzi militari. Ci vuole un’idea. E voi, uomini e donne che venite dall’Italia, non siete una realtà tra tante: siete una forza di umanità

Visvaldas Kulbokas, Nunzio Apostolico in Ucraina

In una fredda piazza Maidan che si è riempita delle immagini con i volti dei caduti di questi anni, il Nunzio Apostolico del Paese, Visvaldas Kulbokas, con la voce piena ha detto: «La  guerra non si risolve con mezzi politici né tanto meno con i mezzi militari. Ci vuole un’idea. E voi, uomini e donne che venite dall’Italia, non siete una realtà tra tante. Siete una forza di umanità. I politici restano nei loro paradigmi. La pace è una sfida che si pone a tutti noi. E questo vale per tutte le guerre. Se lasciamo la questione della guerra e della pace ai politici facciamo fatica a trovare proposte concrete. Fin dall’inizio ho sostenuto questa vostra iniziativa di un Giubileo della Speranza perché è un modo di fare pellegrinaggio umano e di prendere nelle nostre mani le redini della storia. Siamo in un posto simbolico. Preghiamo non soltanto per gli ucraini caduti ma anche per i soldati russi e per tutte le vittime di tutte le guerre».

Piazza Maidan

Nella cattedrale di Sant’Alessandro a Kyiv incontriamo Alyona Horova, la presidente dell’Istituto per la pace e la comprensione, una ong che si ispira ai principi della giustizia “restorativa”, una modalità di attuazione della giustizia riparativa che non si limita alla mediazione dei conflitti in sede penale, ma si allarga a quelli che nascono sui territori, nelle comunità. «Se smettiamo di essere uniti, siamo più deboli. Lavorare sulla pace mentre la guerra va avanti è difficilissimo. Ma se non possiamo chiamare in causa chi ha commesso le ingiustizie, dobbiamo lavorare con chi le ha subite».

Il Nunzio Apostolico Visvaldas Kulbokas/Piero Vitti

Le stime dicono che in Ucraina sono morti da 60mila ai 100mila soldati, ma la maggior parte dei soldati, prima della guerra, erano semplici civili. 100mila sono le persone mutilate e tra loro c’è che sceglie di tornare al fronte. Sulle scale mobili della stazione di Kyiv un uomo si appoggia con la mano destra al corrimano, avrà più di 50 anni ma meno di 60, la faccia stanca e gli occhi azzurri. Io sono su un gradino prima di lui, lo guardo con la coda dell’occhio, per sbaglio gli sfioro il braccio sinistro. Ma sotto il tessuto della camicia non c’è niente, il braccio sinistro è stato amputato. Io sto prendendo un treno per tornare a casa, lui indossa la mimetica militare.  

Kharkiv, la città del fronte

Alle otto di sera a Kharkiv c’è la luce piena della notte. Il coprifuoco inizia alle 23, ma la città è già spettrale. Lanciato dal confine russo, o dalle linee del fronte occupate, un missile può impiegare meno di un minuto per abbattersi sulla città. Questa zona del Paese, nelle applicazioni che segnalano gli allarmi, è sempre rossa: tutto il giorno, tutti i giorni. Kharkiv era l’ex capitale ucraina, la città, che dà il nome a tutto l’Oblast e al distretto circostante, è stata la prima capitale dell’Unione Sovietica prima di cedere il passo a Kiev nel 1934. Trenta chilometri dal confine russo, nello stesso Oblast si trova Izyum, che nel 2022 è stata occupata dall’esercito russo per essere poi liberata, nel settembre dello stesso anno, a seguito di una controffensiva delle forze armate ucraine, che rinverranno, intorno alla città, fosse comuni con centinaia di civili. Ora Kupjansk è il nuovo fronte accesissimo, una “killing zone” dove i droni hanno cambiato la faccia della guerra. In tutto l’Oblast sono state bombardate oltre due milioni di infrastrutture civili. Kharkiv è, anzi era, la città più popolosa dopo Kyiv. Ci vivevano un milione e mezzo di persone. Un dato che è sceso a un milione, ma 500mila si sono rifugiati qui dai villaggi del confine: le loro case sono state distrutte. In città ci sono 20 centri per sfollati interni, palazzoni di cemento che accolgono in silenzio il dolore di una quotidianità spezzata. 

Kharkiv

Caterina, 58 anni è una sfollata di Kupjansk, è stata evacuata nel settembre del 2022, il suo villaggio era stato occupato dai russi. Gira in vestaglia tra i corridoi di quello che per lei è un limbo: la sua casa è stata distrutta, ma una casa vera ancora non ce l’ha. «Facevo la moglie, avevo un orto e gli animali». Irina ha i capelli rossi e corti, e le lacrime che le scendono dagli occhi sono più numerose delle parole che riesce a dire: «Voglio casa mia, ma casa mia non esiste più». Tutta la regione era una zona industriale. Ma oltre mille aziende sono state distrutte, 700 nella sola città di Kharkiv. Appena fuori dal centro città, le strade che da Kharkiv portano ai comuni vicini al fronte, sono segnate ai lati da laccetti bianchi stretti attorno a fasci d’erba: oggi questi sono terreni inaccessibili e minati. Così anche le aziende agricole, settore chiave dell’economia nazionale, sono al collasso. 

L’esterno di un centro per sfollati

Inna è un’insegnante di italiano e inglese, di Kharkiv dice: «È la città più bella dell’Ucraina, la più amata». Una città che non riesce a lasciare andare. Racconta che ha paura solo per sua figlia, che come tutti gli altri bambini non va più a scuola dall’inizio della guerra, ma quando può segue le lezioni a distanza. Con quelli che erano i suoi amici russi non parla più, neanche il russo lo parla più. «Con loro non ho litigato, semplicemente a un certo punto abbiamo smesso di comunicare». Ha affittato una casa a Lviv ma «non ci vado mai, non riesco a staccarmi da Kharkiv. E poi nell’Ovest del Paese non mi sento a casa. Per me non è vero che la guerra ci ha uniti». Daniel di anni ne ha 22: «Tre mesi fa ho lasciato casa mia, era a tre chilometri dal fronte. La situazione peggiorava sempre di più, sempre di più. Prima della guerra io vivevo e basta, noi vivevamo e basta. Ora vorrei solo che finisse perché è una tragedia per tutti». 

Nessuno degli ucraini che abbiamo incontrato si è abituato alla guerra. Ma tutti continuano a resistere, e la resistenza qui ha la forma della vita quotidiana. A Kharkiv non c’è un aiuola fuori posto, un fiore appassito, una carta lasciata a terra

Nessuno degli ucraini che abbiamo incontrato si è abituato alla guerra. Ma tutti continuano a resistere, e la resistenza qui ha la forma della vita quotidiana. Si prova a dormire, anche con gli allarmi. Si prova ad andare a lavoro, quando l’edificio è rimasto in piedi, si va alluniversità e si fa lezione nei bunker, si va a scuola sotto la metro quando si riesce ad organizzare. Si prova a rimanere intatti, a non cedere di un passo. «Resistere per noi è un dovere morale, oltre che civile», dice Sergiy Chernov.

Sergiy assomiglia un po a quei giganti buoni, è consigliere dell’Oblast di Kharkiv, ed è il presidente del Congresso dell’autogoverno ucraino, una ong nata dopo l’invasione con l’obiettivo di lavorare su due livelli: l’integrazione europea e lo sviluppo democratico del Paese. «Come civili lo dovevamo fare», dice. Hanno sostenuto «i più fragili, i rifugiati interni che sono dovuti scappare dalle loro case». Se il Giubileo della Speranza a Kharkiv si è concretizzato è stato grazie a lui, 110 è il numero massimo di partecipanti che per questioni legate alla sicurezza si è riusciti a portare nel Paese.

Kharkiv

La cura come forma di resistenza

«Qui tutto viene bombardato e tutto viene ricostruito», dice. «Vedere la città distrutta è una ferita aperta. Kharkiv non è visitabile, non è turistica, Kharkhiv è la città del fronte che non deve dimostrare niente a nessuna parte dellUcraina. Abbiamo un aeroporto ma non funziona più, i mezzi pubblici sono gratuiti». A Kharkiv ci sono pochissime persone in strada, anche di giorno. Ma non c’è un aiuola fuori posto, un fiore appassito, una carta lasciata a terra: «È la nostra città, e ce ne prendiamo cura anche dopo quasi quattro anni di guerra. Proviamo stanchezza, sia fisica che mentale, credo sia naturale. Ma i cittadini di Kharkiv fanno di tutto per mantenere un’atmosfera positiva. La depressione non aiuta nessuno, non serve. Ogni guerra, prima o poi, termina con la pace. La vera domanda è quando e a quale prezzo. Il costo più alto è quello delle vite umane e dei destini personali. Solo dopo viene il territorio. La priorità assoluta per noi è salvaguardare l’Ucraina come Stato sovrano, libero e democratico».

C’è una cosa più brutta della guerra ed è l’indifferenza. Voi ricordate a noi che esiste un mondo che non è rimasto indifferente e la vostra presenza ci fa sperare che possiamo vincere questo male che è la guerra. È facile dare consigli rimanendo comodi nelle proprie case. Più difficile venire qua per chiedere la pace

Ihor Biletsky, rettore dell’Università Beketov

Kharkiv è anche un polo universitario, il rettore dell’Università Beketov, Ihor Biletsky, ha incontrato i 110 attivisti italiani: «Mi sono chiesto perché siete venuti in questa città così vicina al fronte mettendo a rischio la vostra vita. La guerra è un male assoluto. Distrugge tutto. Distrugge le case, le vite ma anche le anime e le idee. Tutto. Ma c’è una cosa più brutta della guerra ed è l’indifferenza. Voi ricordate a noi che esiste un mondo che non è rimasto indifferente e la vostra presenza ci fa sperare che possiamo vincere questo male che è la guerra. È facile giudicare e dare consigli rimanendo comodi nelle proprie case. Più difficile venire qua per chiedere la pace». 

Pace è una parola che ritorna, anche in una terra «bagnata di sangue e dove noi combattiamo per vivere». Lo ha detto Pavlo Honcharuk, il vescovo di Kharkiv-Zaporizhzhia dei latini, in un incontro in uno dei tanti – troppi – cimiteri Kharkiv. «Ogni città in Ucraina ha un cimitero simile dove sono seppelliti i soldati».

Olga e Ludmilla davanti alla tomba di Maxim

Davanti è solo una distesa di bandiere gialle e blu. L’occhio non può vedere oltre. L’odore è quello della terra appena lavorata. Certe fosse sono ancora vuote, ma pronte: lo sanno tutti che altri corpi stanno per arrivare, arrivano sempre. «Loro non dicono la cifra di quanti soldati muoiono», dice una suora. «Ma guardati intorno», allarga le braccia. «Ogni giorni ci sono funerali. Questa parte di cimitero è tutta nuova, si è riempita in soli sei mesi». Olga piange, Ludmilla pure. Lo fanno sulla stessa tomba, per lo stesso corpo. Del marito una, del figlio l’altra. Maxim è morto al fronte. «La vedi la tomba di fianco a quella di mio marito?», dice Olga. «È di un ragazzo che aveva 31 anni. Avrebbe potuto costruire una famiglia, avrebbe potuto avere figli. Invece niente. Guarda tutte queste persone morte. Lo vedi quanto è spaventoso?».

Perché siamo partiti 

Tra i 110 attivisti c’erano 35 associazioni della società civile, tra cui  tra cui Azione Cattolica, Acli, Anci, MoVI, Masci, Agesci, Base Italia, Fondazione Gariwo, Piccoli Comuni del Welcome, Reti della Carità, Progetto Sud, Ordine Francescano Secolare. C’erano anche singoli cittadini. Prima della partenza Angelo Moretti aveva scritto: «È utile l’iniziativa del Movimento europeo di azione nonviolenta che con oltre 100 donne e uomini i primi giorni di ottobre sarà in Ucraina? Non lo sapremo mai prima di partire, ma certamente sentiamo che è giusto, che è doveroso, che sarebbe sbagliato non farlo e non averlo mai fatto». Ora gli attivisti sono tornati. Don Giacomo Panizza, presidente di Progetto Sud ha detto «che anche le cose balorde riempiono la vita». E così la resistenza di un popolo che non arretra di un millimetro diventa uno spaccato di bellezza e umanità. «Non si poteva non venire», continua. «Chiedono armi per difendersi, pietà, libertà e poi democrazia vera».

Erica Meriggi, mamma di quattro figli e nonna di quattro nipoti, invece, è partita perché «sono arrabbiata con la guerra e con l’Europa. Avremmo potuto intervenire prima, già nel 2014,  se avessimo avuto i corpi civili di pace e questa guerra non ci sarebbe». Il più anziano del gruppo è Marcello Bedeschi, 85 anni, dell’Anci: «Non sono stanco dal viaggio», dice, «perché sono abituato. Voglio bene al popolo ucraino, perciò sono partito. È un momento difficilissimo ma il mio impegno è portare  solidarietà ai bambini e per portare solidarietà devi essere presente. Il popolo ucraino subisce un’ingiustizia. La Russia sta facendo un’ingiustizia storica nei confronti di una nazione che ha conquistato la libertà. Lasciamo i popoli liberi di autodeterminarsi». La più giovane è Sara Moretti, 16 anni: «da tre anni i ragazzi della mia età vivono tra allarmi e bunker e qui non ho mai visto nessuno abbattersi». Nicoletta Castelli Dezza invece dice che «il giorno in cui Pizzaballa ha visitato Gaza ho capito che essere presente con i nostri corpi è importante». Tra Kyiv e Kharkiv ha capito che «non è una guerra di trincea, ma una guerra nella vita quotidiana. E la dignità, l’ordine, la bellezza del popolo ucraino sono una cosa concreta. Persone che sfuggono al vittimismo e vanno avanti con coraggio». 

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