Continua il nostro viaggio nello “stato della sostenibilità” o, meglio, della sensibilità verso i temi dello sviluppo sostenibile, della responsabilità sociale di impresa, dell’impatto. Oggi tocca a un dirigente pubblico di alto livello, di una grande città italiana. Trovate le altre interviste in calce a questa.
Dove va la sostenibilità? O meglio che cosa resterà della coscienza di questo tema, che significa sostanzialmente evitare di vivere su questo Pianeta come se non ci fosse un domani? In questo viaggio, che sta mettendo in fila vari protagonisti del mondo economico e sociale, valeva la pena andare a Torino a incontrare Guido Bolatto, segretario della Cciaa.
Il mondo camerale, che una volta era semplicemente luogo di rappresentanza e di servizio delle categorie produttive – pochi ricordano che in quell’acronimo c’è il commercio, l’industria, l’artigianato, l’agricoltura – oggi è cambiato. Sotto la Mole, da tempo, proprio con la guida di Bolatto, la Camera di commercio s’è messa in dialogo con la società civile organizzata, fino a partecipare a quell’unicum di partecipazione sociale e di attivismo che è Torino social impact – Tsi.

Alla sua sinistra Michela Favaro, vicesindaca di Torino e Sonia Cambursano, consigliera della Città con delega allo sviluppo economico
Bolatto, classe 1963, di Cuorgné, cioè dell’Alto Canavase che vede il Gran Paradiso, segretario dal 2001, dopo aver lavorato nella grande revisione (Andersen), ci riceve nel bel palazzo della Camera, nel bel Palazzo Birago, sulla via Carlo Alberto.
Segretario, che ne sarà dell’impegno sulla sostenibilità, particolarmente delle imprese? Proprio il professor Mario Calderini, portavoce di Torino social impact, nel bel mezzo di quella che pareva una ritirata sui temi della Diversity equality and inclusion – Dei, e ai tanti, talvolta pittoreschi, autodafè di alcuni gruppi, il professor Calderini, dicevo, invitava a saper guardare anche alle molte grandi aziende che hanno dichiarato di mantenere gli impegni.
Sono abbastanza d’accordo con quello che diceva Calderini. Non mancano i messaggi negativi, da parte dal mondo americano, condizionato dall’amministrazione Trump e il cambiamento di passo completo sul green, sulla sostenibilità e anche in generale la messa in discussione di tutti questi principi, con una parte almeno dei grandi investitori, dei grandi fondi che sembra non vedessero l’ora arrivasse il “liberi tutti”. Dall’altro anche la scelta europea di togliere dalla D. G. Grow, la struttura che si occupava di economia sociale e di confinare i temi della sostenibilità esclusivamente nella direzione generale che si occupa di politiche sociali, sembra un po’ ritornare all’idea del ghetto: certi temi li lasciamo agli specialisti delle cooperative sociali.
Della serie, abbiamo fatto l’Action Plan ma ora torniamo alla normalità…
E sono segnali sicuramente negativi…
Ma?
Ma noi, almeno a livello locale, vediamo invece un crescente interesse. Le cito un fatto: l’anno scorso siano venuti a cercarci i piccoli albergatori, chiedendoci di aiutare i loro associati ad approcciare questo mondo degli Esg. Non le catene, ovviamente, perché quelle hanno i loro standard per cui non hanno sicuramente bisogno di noi, era il gruppo un po’ dei alberghi di famiglia, Federalberghi Torino-. Ci siamo inventati un percorso di avvicinamento, alcuni si sono dotati di una certificazione, fatta ovviamente da organismi degli esterni, che ha coinvolto i piccoli alberghi di città, ma anche agriturismi, attività ricettive in giro per la provincia.
In effetti.
E ci hanno chiesto, recentemente, un refresh per cui abbiamo fatto una giornata intera dedicata agli Esg molto partecipata. Insomma, l’interesse dal basso non pare esser venuto meno, nonostante questi segnali negativi dall’alto. Certo, potrebbe trattarsi di effetto trascinamento, si potrebbe pensare che a un mero fattore di concorrenza, perché nella grande hotellerie, soprattutto quella che lavora a livello internazionale e con grandi gruppi, ormai la sostenibilità è uno standard… Ma le faccio un altro esempio.
Prego.
Anche il nostro piccolo osservatorio di Tsi, registriamo tante, tantissime nuove adesioni: un centinaio nell’ultimo anno, soprattutto di realtà con molti giovani.
Forse, segretario, c’è la consapevolezza diffusa che la posta in gioco sia elevata, dal clima in giù, più grande, delle contingenze geopolitiche.
Sono convinto che sia questo il tema di fondo. Che essendoci in gioco la sopravvivenza del Pianeta, le persone restino convinte della bontà di queste scelte di fondo, al di là del fatto che poi magari qualche fondo non voglia più essere certificato, per dire.
Sulla Borsa dell’impatto sociale si procede, abbiamo completato la fase iniziale e sono stati prodotti otto dossier di quotazione, cioè relativi ad aziende, cooperative, enti.
Guido Bolatto, segretario Cciaa Torino
Tornando a Torino, Bolatto, quindi non vede a rischio progetti come quello della Borsa dell’impatto sociale che avete accompagnato sin qui?
Sulla Borsa si procede, abbiamo completato la fase iniziale e sono stati prodotti otto dossier di quotazione, cioè relativi ad aziende, cooperative, enti, come se dovessero andare in Borsa. A me piace sempre sottolineare che tutto questo lavoro è stato fatto da più di un centinaio di professionisti che hanno lavorato pro bono. Anche grandi studi di notai, di commercialisti che, a livello italiano, ci si sono offerti per aiutarci a strutturare quel percorso.
Giusta notazione.
Anche perché un apporto di consulenza valorizzabile in un milione di euro. Adesso noi ci siamo scontrati col tema di creare un mercato perché, non avendo trovato terreno fertile in Borsa italiana, abbiamo dovuto inventarci una soluzione alternativa, che abbiamo trovato in Vorvel spa Sim, che è una società di intermediazione mobiliare che gestisce già mercati alternativi e che si è offerta di far nascere un mercato. Siamo nella fase di definizione delle regole e della ricerca degli investitori.
Verso quale direzione?
Stiamo dialogando con le fondazioni, le grandi fondazioni bancarie, e con Cassa di depositi e prestiti, per costruire assieme meccanismi che garantiscono il mercato, e soprattutto l’investitore. Confido che entro la fine dell’anno si sia trovata, almeno dal punto di vista teorico, una soluzione. Diciamo che siamo a buon punto.
E resiste la suggestione di farne una sede fisica, nell’edificio della vecchia Borsa merci di Torino, come suggerì Giorgio Fiorentini di Sda Bocconi, un paio di anni fa?
Noi lo stiamo ristrutturando, quell’edificio. Chissà che, prima o poi, non possiamo fare là dentro la Borsa….
E di vederla a suonare il gong, come si fa a Wall Street!.
Sarebbe bello (ride).
Abbiamo evocato poc’anzi Torino social impact, la cui storia è la documentazione di come il mondo camerale sia cambiato. L’altro giorno, al Salone della Csr, è stata premiata la Cciaa di Treviso, col “premio Impatto”, per le molte iniziative sulla sostenibilità…
Certo, il sistema camerale si sta muovendo, anche se magari a macchia di leopardo. E non dimenticherei i colleghi della Cciaa di Taranto, e il loro lavoro sulle società benefit, di cui gestiscono l’Albo nazionale. Però su Tsi, non manco mai di ricordare, che è stato possibile grazie al management della cooperazione sociale torinese, davvero illuminato.
In che senso?
Nel senso che non concepiva e non concepisce la cooperazione, soprattutto quella sociale, come un mondo a parte, con regole sue, da difendere, quasi come un castello, un fortino, ma che anzi dovesse aprirsi al mondo profit, e quindi, implicitamente, anche il mondo non profit dovesse aprirsi a questo e contaminarsi. Perché il motivo per cui nasce tutto ciò, è cercare di importare buone pratiche da una parte e dall’altra: far sì che il mondo della cooperazione, in più in senso lato, il mondo dell’economia sociale importasse buone pratiche di management, ma anche sul digitale e sulla finanza, dal mondo profit.
E viceversa?
Pensare, nello stesso tempo, che il mondo profit cominciasse a ragionare non esclusivamente in termini di prodotto, di profitto, ma anche di ricadute e di impatto sociale. Ed effettivamente in Torino social impact è successo, sta succedendo.
La Torino sociale sta scrivendo una pagina interessante.
Sì, anche per la fortuna di avere sul territorio tutta una serie di enti, fondazioni, associazioni, particolarmente vocati a questo tema. Penso alle fondazioni di famiglia: non so in quanti altri territori ci sia una presenza così forte. E di fondazioni aziendali. Per non parlare di quelle di origine bancaria, a Torino sono due delle tre più grandi.
È una ricchezza che anche il nostro il numero di ottobre di VITA magazine, dedicato alla filantropia, ha colto. Soddisfatto di Tsi, quindi, o c’è da migliorare ancora?
Soddisfatto anche perché, al di là di questo ruolo da cui eravamo partiti, chiamiamolo di contaminazione, poi abbiamo anche raggiunto un livello di riconoscibilità all’esterno. Ci siamo accreditati su tutta una serie di palcoscenici italiani e internazionali, anche dal punto di vista dell’elaborazione culturale. Il fatto che la Città metropolitana ci abbia fatto guidare la redazione del Piano per l’Economia sociale, e che siamo stati chiamati al tavolo nazionale che ha scritto il Piano nazionale, di cui si è aperta la consultazione al ministero per l’Economia e la finanza – Mef, è significativo. Così come lo è il fatto che abbiamo attratto a Torino tutta una serie di eventi internazionali su questi temi, sicuramente dà valore a Torino social impact, e lo individua, come un punto di riferimento importante. Poi c’è sempre da migliorare, va da sé. Infatti quello su cui dobbiamo sempre di più concentrarci è l’offerta – lo dico semplificando – di servizi e opportunità agli aderenti a Torino social impact. Abbiamo una grossa responsabilità verso i 400 che hanno firmato la lettera di adesione.
Adesso come lo fate?
Attraverso le comunità di pratica, un metodo che funziona molto bene. Tra l’altro coinvolgendo anche qui, mondi che spesso sono un po’ ai margini rispetto al sociale: penso agli ordini professioni professionali, che vengono chiamati solo quando magari c’è un problema nelle associazioni non profit e invece, il fatto di averli a bordo di una comunità di pratica, è un altro segnale importante, l’humus di territorio. Un altro bel lavoro che serve e sta funzionando abbastanza è quello l’hub dei progetti europei: abbiamo già una dozzina di progetti europei presentati da aderenti a Torino sociali impact, progetti che abbiamo aiutato a far nascere, a costruirne le proposte, a cercare partner a livello internazionale.
Senta Bolatto, questo bello spaccato della Torino sociale, mi riporta alla mente, quello che scrissi all’epoca della seconda crisi Fiat, quella 2002. Ricordo che intervistai una caporeparto licenziata, andata a lavorare nella cooperazione sociale, e un po’ di dirigenti del Terzo settore, don Ciotti ed Ernesto Olivero. Da allora la città ha riscritto un po’ la sua storia ma sembra che non si sia mai del tutto reinventata. L’economia sociale può essere una via? O l’intelligenza artificiale di cui sta diventando attrattrice?
Noi non dobbiamo dimenticare che la città vive ancora molto di automotive. Secondo il nostro Osservatorio camerale, sono ancora oggi 90mila gli addetti del settore. Ovviamente non sono più più “solo Stellantis”. Le aziende che negli anni hanno diversificato, hanno incominciato a lavorare anche per Bmv, per Renault. Hanno trovato clienti in giro per l’Europa, che però adesso sono in forte difficoltà.

Per le scelte di Bruxelles sull’elettrico…
Evidentemente. Qualcuno sta cercando di riciclarsi, aprendo fabbriche in Ungheria per seguire i cinesi che stanno aprendo impianti per fare auto elettriche in quel Paese, però è molto difficile e comunque vuol dire perdere posti di lavoro qua. Tra l’altro, con Tsi, abbiamo fatto un lavoro con il nostro Centro di valutazione dell’Impatto. Un lavoro al contrario, direi, sull’impatto perduto.
Lo ricordo, con Cottino – Istud e la Cgil, ne scrisse la nostra Daria Capitani.
Abbiamo valutato l’impatto negativo di due aziende dell’indotto-auto che stanno chiudendo. Forse una in parte viene salvata proprio dai cinesi, se si riesce a chiudere l’operazione… Da quella ricerca emerge proprio come, alla fine, parte di questo territorio sia ancora fortemente dipendente da quel mondo.
Un’altra crisi da governare.
È quello che ci aspettiamo, perché questo vorrà dire comunque come minimo cassa integrazione e forse anche qualche licenziamento di numeri importanti di addetti. Poi dipende come andrà finire il dossier dell’elettrico, se ci saranno dei ripensamenti o meno a livello europeo. Io faccio l’esempio di una delle due aziende, la più grossa, che ha più di 1.600 dipendenti in provincia di Torino e che fa marmitte. Tra poco, e neanche tanto, le marmitte non serviranno più. E di quei 1.600 cosa ne facciamo? Poi questo territorio sta provando a reinventarsi con la scommessa sul turismo, collegato ai grandi eventi, ma anche all’enogastronomia, all’outdoor che il territorio, di Torino e di fuori Torino, può offrire. L’unica criticità di questa scelta, è che è un lavoro povero perché, alla fine gli stipendi di questo comparto, a parte alcuni eccezioni, non sono sicuramente confrontabili con quelli del manifatturiero.
C’è la scommessa dell’Ai
Certo, il fatto di avere qui la Fondazione per l’intelligenza artificiale, l’unica in Italia, è un’opportunità e dovremmo essere capaci di sfruttarla al massimo. Intanto arriveranno qui 150 giovani ricercatori da tutto il mondo. E già questa sarà una bella iniezione di competenze, di innovazione. Però saranno soprattutto le nostre aziende e i nostri giovani a dover sfruttare l’opportunità, magari per creare nuove aziende, come già sta succedendo, che si occupano di intelligence artificiale. E l’Ai è una sfida da anche per l’economia sociale, perché noi ci abbiamo lavorato un po’ coi prodotti sul digitale.
Qual è il punto, in quel campo?
L’importare anche queste tecnologie, applicarle ai processi dell’economia sociale, sicuramente porterà rivoluzioni: penso a tutta l’assistenza agli anziani, tanto per fare un esempio. Quanto ovviamente l’analisi e la sensoristica magari può aiutare gli anziani a vivere a casa loro più a lungo, senza dover necessariamente essere confinati in un Rsa. Quindi può portare a miglioramento di qualità della vita ma, dall’altra parte, è una sfida per il mondo che gestiva quel tipo di assistenza, perché vuol dire qualificare in maniera completamente diversa da un’assistenza molto più fisica, a un’assistenza invece immateriale, a una capacità di leggere i dati.
Servizi da reinventare.
Esatto, da reinventare e riqualificare. Non ci sarà più bisogno di chi alza le persone e le metta sulla carrozzina, ma di chi, da un monitor, capisca dai dati, dai parametri, cosa fare. La cooperativa sociale che fa assistenza agli anziani, che ha magari una trentina di dipendenti, come può pensare di avere la capacità di investire in intelligenza artificiale, formare le proprie persone all’uso? Dovremmo essere noi, assieme alla Fondazione per l’intelligenza artificiale, alle centrali cooperative di appartenenza, a dargli gli strumenti per affrontare questa sfida. Credo che questo sarà l’obiettivo dei prossimi anni, sicuramente del prossimo e di qui in avanti. A breve firmeremo un accordo proprio con una Fondazione Ai4Industry, per fare questo lavoro su tutti gli ambiti produttivi.

Ottimista o pessimista, Bolatto?
Cerco di essere un ragionevole ottimista. Abbiamo grosse opportunità, sta a noi sfruttarle. Enti come il nostro possono fare molto, perché, con le fondazioni bancarie, siamo ormai gli unici che hanno un po’ di autonomia finanziaria per fare qualche investimento, un po’ di credibilità nei confronti delle aziende e anche dell’economia sociale, perché ce la siamo costruita in questi anni. Per tornare ai 130 ricercatori, la sfida sarà portarli sui campi nostri, sull’economia sociale. La loro creatività porterebbe benefici.
Segretario ma questa sua sensibilità, abbastanza rara nella Pubblica amministrazione, da dove nasce?
La formazione giovanile che si fa in parrocchia, fra campi estivi, un po’ di volontariato al Cottolengo. Poi c’è stata anche la contaminazione positiva del Gruppo Abele. Un po’ di politica a livello locale (è stato sindaco “civico” del comune di Salassa, nel Canavese, ndr)
Sempre con l’idea di provare a cambiare le cose?
Esatto. Adesso mi piace dire che, forse, da qui si riescono a cambiare di più le cose che non facendo politica, negli enti locali o anche al Parlamento, dove alla fine sei un numero. Da qui invece – per carità in una posizione periferica – si riescono a fare delle cose concrete.
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