Il presidente di Fondazione Roma sarà presente domani, 8 ottobre, alle 11,30, alla XIII edizione del Salone della Csr e dell’innovazione sociale, presso l’Università Bocconi di Milano (Via Roentgen, 1). Parteciperà alla presentazione di Vita magazine di Ottobre, intitolato Nella testa dei filantropi. Con lui, Maria Cristina Ferradini, consigliere delegato di Fondazione Amplifon e Marisa Parmigiani direttrice di Fondazione Unipolis.
Franco Parasassi è un gentiluomo di altri tempi, pur essendo un signore del 1962: elegante, garbato, di una cortesia a cui non siamo più abituati. È uno che è capace di accompagnarti fino alla soglia del bellissimo Palazzo Sciarra Colonna, sede capitolina di Fondazione Roma, una volta finita l’intervista.
Parasassi della Fondazione è il presidente dal 2018, rinnovato nella primavera scorsa per un altro mandato, fino al 2029: ha alle spalle una lunga carriera di tecnico di alto profilo nel settore bancario, di cui una ventina da direttore generale della fondazione stessa. Un ente da 1,9 miliardi di patrimonio e da oltre 30,6 milioni di erogazioni all’anno in cultura, arte, ricerca, sociale, cui si aggiungono interventi diretti nella cura e nella ricerca dell’Alzheimer, del Parkinson nelle cure palliative, con strutture, personale, investimenti per 20 milioni all’anno. L’uomo giusto per parlare della filantropia oggi in questo Paese.
Presidente, la prima domanda è di sistema. Cioè a che cosa serve la filantropia oggi in Italia?
La filantropia secondo me in Italia non serve solamente a raccogliere denaro, ma serve ad un’opera di sensibilizzazione. Non si può parlare di filantropia solo in termini economici, ma proprio di sensibilizzazione alle persone a dare il proprio tempo, il proprio contributo sul sociale. La filantropia, cioè, non deve essere misurata solo in termini economici ma anche educativi.

Un’idea di responsabilità: non basta mettere insieme le risorse.
Perché poi, magari, finisce lo fai una volta e via. Invece ci vuole proprio una un’educazione alla filantropia.
Siete una delle prime sette fondazioni bancarie per patrimonio. Lei è presidente, ma ne è stato a lungo direttore. Qual è la complessità del governare e orientare le scelte di una realtà di questo livello?
Beh la complessità sta nel fatto che il presidente è l’interlocutore principale della fondazione. È a lui cui si deve fare riferimento, sia all’interno, per quanto riguarda la struttura aziendale, sia all’esterno. Ma è un fare riferimento molto diverso rispetto a quello del direttore generale, l’altra figura di vertice della Fondazione.
Di cui ci può parlare, avendolo fatto per quasi 20 anni …
È il capo della macchina operativa, colui che deve dare esecuzione alle delibere del consiglio di amministrazione. Un ruolo molto molto importante: fare in modo che tutto ciò che viene deliberato dal cda e tutti gli atti aziendali interni, siano comunque coordinati tra di loro e vadano nella stessa direzione.
Che tutto converga.
Deve coordinare e fare in modo che tutta quanta la struttura sia ordinata e indirizzata verso gli obiettivi che vengono determinati dal cda e dal comitato di indirizzo. Il presidente, invece è una figura diversa. È quello che deve innanzitutto fare in modo che le attribuzioni tra il comitato di indirizzo e il consiglio di amministrazione siano rispettose di quello che prevede lo statuto, perché ci deve essere una separazione delle competenze molto chiara tra organo di indirizzo, organo di amministrazione e organo di controllo. E poi è colui che è il garante dello statuto, quindi deve fare in modo che le regole di governance siano rispettate, e che l’attività della fondazione rispetti il Documento programmatico generale, quello triennale, e anche il Documento Programmatico annuale, il famoso bilancio preventivo, e che il patrimonio sia gestito al meglio. In carico al presidente c’è anche un’altra funzione particolarmente importante…
Quale?
Di sollecitare sia la struttura interna sia gli esterni, ossia la società civile, gli stakeholder, a una collaborazione sempre più vicina, sempre più marcata. E poi…
E poi?
E poi dal presidente si pretende anche una certa visione, non nell’immediato ma nel medio lungo periodo. E questo è anche importante perché poi in tutte le squadre – un’immagine calcistica, mi perdoni – ci deve essere quello che ha la maglia numero 10, cioè quello che fa da regista.
La perdono: per me quel 10 era Giancarlo Antognoni. Lei, presidente, è romanista o laziale.
No, no, io sono juventino! E per me era Michel Platini (ride). Comunque ci deve essere in quel ruolo qualcuno che smisti i palloni. Se poi questa persona a volte riesce a fare anche il portiere e il centravanti di sfondamento, ancora ancora meglio ovviamente.
E poi anche se per statuto, e per storia nel vostro caso, siete proiettati a sostenere la società civile. Dovete anche conservare il patrimonio, insomma giocare anche un po’ in difesa.
Certo. E di questo è il presidente garante e, come dicevo prima, deve avere anche un po’ una sorta di visione.
Lei ne ha?
Preferirei dire delle intuizioni. E la mia, quella degli ultimi anni, è stata quella di fare in modo che la Fondazione cambiasse paradigma e cioè che, dalla comunità del territorio, si passasse alla comunità del bisogno. Per farlo abbiamo aperto i nostri confini operiamo nel Mezzogiorno d’Italia, e poi dall’Argentina, all’Africa, dall’Ucraina al Nepal …
Un respiro adeguato alla città dell’urbi et orbi.
All’universalità di Roma. L’altro aspetto, a cui io tengo particolarmente, è che il nostro lavoro non deve essere giudicato o indirizzato sul cosa fare.
Perché presidente?
Perché, come ripeto spesso, qui basta aprire la finestra e il bisogno è ovunque. Il nostro impegno deve essere indirizzato a come fare le cose e con chi. Perché operare anche in collaborazione con soggetti terzi aumenta molto il valore sociale della nostra attività. Purché siano quelli giusti.
Resta ovviamente la responsabilità dello sceglierseli, questi interlocutori.
Certamente. Ma sono anche sicuro che, con l’esperienza acquisita negli anni, siamo nella possibilità di poterceli scegliere e abbiamo fior fior di partner. Debbo dire che forse, non a caso, i nostri partner migliori, i più affidabili risultano sempre strutture che fanno capo alla Chiesa o comunque enti di origine religiosa.
A proposito, vedo queste belle foto, che donato un clima di grande cordialità con Papa Francesco. Venne addirittura a trovarvi qui.
Si fu l’11 gennaio scorso. Sono stati momenti di fortissima emozione, perché è stata una visita preannunciata con 24 ore di anticipo, praticamente all’improvviso e in un venerdì pomeriggio con la Gendarmeria abbiamo fatto tutto il percorso per prepararci ad accoglierlo.
Era la prima volta?
No, aveva visitato il nostro Villaggio Alzheimer alla Bufalotta, la mostra di Chagall, a Palazzo Cipolla, ma era la prima volta qui a Palazzo Sciarra Colonna, per incontrare noi. Anzi, qualcuno ci ha detto che era la prima volta di un pontefice in visita privata in un ente privato. Ovviamente Francesco faceva molte visite private, quella a Emma Bonino, per esempio. Ma mai si è recato di persona presso enti privati come il nostro.
Si spiega per le molte cose che fate con la Chiesa, come accennava prima? D’altra parte nascete dal Monte di Pietà, poi confluito quasi un secolo fa nella Cassa di Risparmio.
Il Monte di Pietà è stato fondato con la bolla pontificia di Paolo III Farnese nel 1539 e la Cassa di Risparmio con un rescritto pontificio di Papa Gregorio XIII nel 1836: le nostre origini sono nella Chiesa. Origini che sentiamo e tantissimi sono gli interventi che facciamo per la Chiesa, ad esempio su Roma. Un’importante iniziativa recente, tra le tante, è quella sulle chiese periferiche per consentire alle parrocchie di dotarsi di strutture accoglienti. Oggi gli oratori sono sempre più luoghi di accoglienza e di integrazione. E poi per dotare le parrocchie di attività ricettive per gli anziani, per fare attività sportiva, teatro, fare comunità.
Di questo incontro con Papa Francesco, c’è qualcosa che lei si porta un po’ nel cuore?

L’ho accompagnato in tutto il percorso e gli ho rivolto l’indirizzo di saluto. Ha ringraziato la Fondazione per tutte le attività e si è molto preoccupato soprattutto che l’accesso alle iniziative culturali fosse sempre gratuito, cosa che noi facciamo regolarmente, qui a Palazzo Sciarra Colonna, naturalmente. È stata veramente un’esperienza unica, perché una cosa è andare in una cerimonia a dare la mano al Papa, altro poterlo ricevere si può dire a casa propria. Quella volta, ci fu un dialogo vero.
Che cosa vi ha detto?
Ci ha raccontato d’essere molto affezionato ad una poesia di Tommaso Moro, La poesia del buonumore. Ce ne ha ricordato le prime strofe Signore dammi una buona digestione e anche qualcosa da digerire – e poi ci ha detto: «Leggetela ogni mattina e se poi conservate ancora un po’ di tristezza, andate davanti allo specchio e fate una smorfia». E questo ha catturato la simpatia di tutti. Quando poi l’ho accompagnato all’uscita, in ascensore…
Le ha parlato?
Gli ho detto «Santo Padre», perché non voleva esser chiamato “Santità”, «mi spiace che oggi l’abbiamo affaticata». Cominciava infatti a essere un po’ stanco. E lui mi ha risposto: «No, no, sono stato benissimo». Credo non fosse una risposta di circostanza, c’erano tutte le nostre famiglie, si creò un clima molto bello.
Essere presidente di una Fondazione che si chiama “Roma” implica delle responsabilità non comuni, immagino.
Per molte cose equivale ad altre fondazioni bancarie nelle città importanti, cioè sempre un radicamento molto forte sulla città in cui la Fondazione ha sede. Molte volte, per questo, il rapporto con chi amministra la città può sembrare quasi un atto dovuto.
Per voi è così?
Da noi non è mai stato così: merito anche dei sindaci che hanno visto sempre la Fondazione con grande rispetto. Anche perché noi nel nostro statuto non abbiamo il Comune di Roma come organismo designante, il Campidoglio non designa componenti del Comitato di indirizzo come fanno altre fondazioni. È un rapporto di grande rispetto e molto aperto: parlo con gli assessori, raccolgo le esigenze, ogni tanto mi incontro anche con il sindaco e, se ci sono progetti condivisi, li facciamo. Ma li sosteniamo perché valgono e non in quanto “romani”. È un partenariato veramente intelligente.
Scopri i numeri della filantropia e i 100 profili di chi investe nel bene comune su VITA magazine di ottobre ‘‘Nella testa dei filantropi”
So che avete lavorato insieme sulle piste ciclabili.
La cosa più recente è stato un contributo di un milione di euro per l’emergenza affitti, che poi abbiamo ulteriormente aumentato di 500mila. Poi, ancora di recente, un teatro per ragazzi nel quartiere di Monteverde: siamo andati a vederlo, abbiamo capito e sostenuto. Se c’è una cosa di cui posso andare fiero è che siamo davvero veloci nei nostri processi deliberativi. Naturalmente il richiedente deve essere in grado di metterci a disposizione la documentazione necessaria per valutare.
A proposito della emergenza affitti, pensa in futuro che la Fondazione possa occuparsi di housing sociale come altri enti hanno fatto creando una fondazione ad hoc?
Possiamo fare l’housing sociale però come investimento, non come attività istituzionale erogativa. Lo potremmo fare e lo stiamo esaminando.
Fate molte cose, anche direttamente – penso al Villaggio Alzheimer, penso all’Hospice, penso al centro di ricerca con il Campus Biomedico. C’è qualche progetto che, secondo lei, rappresenta bene, più di altri, quello che Fondazione Roma è?
Gliene devo dire due. Cominciando da un’iniziativa che abbiamo fatto con il Cuamm Medici con l’Africa, cui abbiamo contribuito con 10 milioni di euro. Un intervento a favore delle partorienti. Perché, è bene ricordarlo, nell’Africa subsahariana ci sono 280mila donne che muoiono di parto ogni anno. E quello è un intervento che veramente ci ha riempito il cuore di gioia, abbiamo percepito veramente di aver fatto qualcosa di importante. Lo avevamo intuito incontrandone il direttore, don Dante Carraro.
Lo conosceva?
L’avevo conosciuto all’inaugurazione dell’anno accademico della Cattolica, qui a Roma. Aveva fatto un intervento che mi aveva veramente colpito, tanto che alla fine sono andato a salutarlo, presentandomi, per invitarlo in Fondazione. Accomiatandomi gli ho detto: «Guardi don Dante, se lei non viene a trovarmi, vengo io a beccarla in Africa».
Avevo conosciuto don Dante Carraro all’inaugurazione dell’anno accademico della Cattolica a Roma. Un intervento che mi aveva colpito, tanto che alla fine sono andato a presentermi, invitandolo in Fondazione. Accomiatandomi gli ho detto: «Guardi, don Dante, se non viene lei, vengo a “beccarla” io in Africa».
Franco Parasassi, presidente di Fondazione Roma
E lui?
Credo all’inizio fosse un pochino diffidente, come è normale che sia. Poi è venuto a trovarmi, ci siamo capiti in un attimo. L’ho presentato al Cda, è venuto ad illustrare il suo progetto ed abbiamo deliberato 10 milioni di euro. È stato importante anche per dare un segnale concreto del passaggio dalla comunità del territorio a quella del bisogno.
Il secondo progetto?
Qui ritorniamo sul territorio, perché noi abbiamo un Hospice per malati terminali dove facciamo anche molta assistenza domiciliare. Poi abbiamo il Villaggio Fondazione Roma sull’Alzheimer che si è recentemente aperto anche al Parkinson, con un centro diurno, mentre al Campus Biomedico abbiamo avviato un centro sulla ricerca scientifica sull’Alzheimer.
Praticamente un piccolo distretto diffuso
Un piccolo distretto socio-sanitario che coinvolge anche la ricerca scientifica ma che, al tempo stesso, consente l’impiego di circa 300 persone. Oltre a intervenire su bisogni molto forti, cioè, contribuiamo così anche allo sviluppo economico. È questo secondo me cui dovrebbero tendere le fondazioni: avere almeno un’iniziativa propria di questo livello e di questa importanza.

Da tempo, tra l’altro.
L’Hospice dal 1998, il Villaggio dal 2008: sono passati alcuni anni, ma rappresentano ancora una modalità innovativa di intervento, perché secondo me è questo che deve differenziare una fondazione. Tenga conto che noi tra Villaggio e Hospice investiamo circa 20 milioni di euro l’anno. Mentre il centro è stato un contributo una tantum. Secondo me le fondazioni, perlomeno le più grandi, dovrebbero qualificarsi per un’iniziativa propria veramente importante. Ma me ne faccia ricordare un altro, di progetto.
Vale a dire?
La sponsorizzazione della società sportiva Montespaccato. Credo sia la prima sponsorizzazione sociale d’Italia. Di una società che opera in un centro sportivo sottratto alla criminalità e affidato all’Asilo Savoia, che ha coinvolto tutto il quartiere. Fanno calcio, maschile e femminile. Ho incontrato il loro presidente, Massimiliano Monnanni, in occasione di una giornata un po’ particolare: avevano appena avuto un atto vandalico piuttosto grave. Lo chiamai per dargli la nostra solidarietà e gli ho detto: «Guardi quello che è stato distrutto, ci penserà la Fondazione Roma a ricostruirlo». Sono andato comunque a trovarli. E lì mi è venuto in mente di fare questa sponsorizzazione sociale.
Hanno “Fondazione Roma” sulle maglie quindi?
Certo e nel farlo si impegnano al rispetto ed al fair play, tant’è vero che sono stati, ancora una volta, primi in Coppa Disciplina.

Già ma nella classifica generale?
Bravissimi. Sono arrivati secondi in campionato.
Finalmente la correttezza paga. Qual è il senso di questa sponsorship, Parasassi?
Portando il nostro nome sulle maglie, portano anche il nostro messaggio di solidarietà e di inclusione che lo sport, particolarmente il calcio perché è il più frequentato, dovrebbe sempre diffondere. La prima cosa che ho detto loro, incontrandoli, è di mantenere la disciplina in campo. Il che non vuol dire che non ti può scappare un fallo, un’entrata decisa, ci sta, c’è la foga dell’azione, no? Però, se la fai, dopo te ne scusi con gli avversari e se ti prendi un’ammonizione, stai zitto, e ti scusi con l’arbitro e anche col pubblico. Ed è quello che vorremmo vedere in Serie A.
Che cosa le piace di questa squadra di periferia?
Che sono un grandissimo esempio di solidarietà, partecipano alla vita del territorio, si danno da fare in società. Con i 220mila euro che gli abbiamo dato, hanno attivato un doposcuola, uno sportello di assistenza psicologica, tutto un insieme di attività sociali e di supporto. Però i ragazzi che ne fanno parte, sia la prima squadra che quelle inferiori, sono partecipi in tutto. Insomma sono ormai una realtà educativa.

In questa Italia, dove di oratori ce ne sono sempre meno, le associazioni sportive hanno una responsabilità enorme: in tanti contesti, sono rimaste gli unici luoghi di aggregazione.
È vero, tant’è che siamo impegnati anche a Corviale sempre in ambito calcistico. Ecco, di iniziative esemplari ne abbiamo tante e il loro valore sta nella replicabilità: se non lo fossero, non daremmo un bel segnale anche agli altri.

Si torna alla sua prima risposta, al valore educativo della filantropia.
Sì non è importante quello che facciamo, ma come lo facciamo e la replicabilità delle iniziative è centrale. E l’operare coi partner giusti, ovviamente, che sposano lo stesso concetto di utilità sociale.
Nell’Acri, in cui lei ha riportato la Fondazione recentemente, c’è un forte spirito collaborativo, che la presidenza di Giovanni Azzone non manca mai di sottolineare, come l’essere stato a Torino all’elezione del nuovo presidente di Assifero, l’altra famiglia filantropica, Antonio Danieli. E anche col Terzo settore c’è sempre meno la semplice erogazione e più il fare insieme. Lei cosa ne pensa?
Spesso le fondazioni sono viste come quelle che danno e non come quelle che fanno. Vorrei tanto che il Terzo settore ci vivesse anche come partner esecutivi, che poi possono anche mettere le risorse, certamente, ma su questo deve essere fatto un salto di qualità. Ci aspettiamo, cioè, che chi si presenta in Fondazione non lo faccia solo per richiedere fondi, ma anche per chiedere come migliorare una ipotesi progettuale, quasi come ad acquisire un marchio di qualità. Noi, peraltro, possiamo essere erogatori di buone prassi, di competenze e non solo di denaro, perché le fondazioni delle nostre dimensioni sono aziende, e allora possiamo mettere a sistema anche dei modelli operativi. Non siamo gelosi se qualcuno ci vuole copiare e noi possiamo dargli una mano per fare meglio di come abbiamo fatto noi, che magari abbiamo fatto per primi.
L’ultima domanda è appunto all’uomo, Franco Parasassi, anche se lei è famoso per il suo understatement. C’è qualcosa o qualcuno che ha influenzato la visione della filantropia e il suo stile di governo dell’ente? C’è stato un incontro, una lettura?
Di tantissimi incontri. Il primo fu con un militare, col generale Pietro Giannattasio che era, all’epoca, capo di gabinetto del ministro della Difesa, Giovanni Spadolini. Io, militare di leva nel 1985, ero suo autista e lui mi insegnò con una battuta che essere inutilmente ligi non era da persona intelligenti. Poi, certamente don Mario Picchi, da cui ho imparato l’importanza di darsi agli altri, a prescindere. E ci metto anche Alberto Zapponini, già presidente della Guida Monaci. Appena arrivai, era consigliere di amministrazione e io ne avevo soggezione. E lui invece mi mise assolutamente a mio agio, insegnandomi che tutte le persone, anche quelle appena arrivate, debbono essere trattate allo stesso modo, cioè non devi far pesare la tua autorevolezza, né il tuo ruolo. Poi assolutamente, anche Gaetano Rebecchini (sindaco di Roma, poi senatore, a lungo rappresentante della piccola emittenza televisiva, ndr) per il rigore che incarnava, l’essere lineare sempre. Infine Mario Stirpe, luminare dell’oculistica in Italia, che mi ha insegnato a non fermarmi mai davanti agli ostacoli, anche quelli più difficili, ed a valorizzare le persone con cui si lavora.
Nella foto di apertura del servizio Vatican Media/LaPresse, nell’aprile 2019, Papa Francesco visita il Villaggio Alzheimer di Fondazione Roma. Alla sua sinistra, Franco Parasassi. Le altre foto sono dell’ufficio stampa di Fondazione.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.
