Roberto Reggi

La filantropia? Ormai può fare meglio della politica

di Giampaolo Cerri

Già sindaco, sottosegretario all'Istruzione e direttore del Demanio, il presidente di Fondazione Piacenza e Vigevano spiega l'importanza oggi delle fondazioni di origine bancaria e degli enti filantropici in genere. Capaci di incidere nella realtà come spesso le "politica politicante" non riesce più. Versione estesa dell'intervista che appare su VITA magazine di ottobre: "Nella testa dei filantropi"

Della sua città, Piacenza, Roberto Reggi (1960) è stato un sindaco appassionato per un decennio: dal 2002 al 2012. Dal 2021, guida la Fondazione Piacenza e Vigevano. In mezzo esperienze politiche e amministrative di rilievo fra il 2014 e il 2018, prima come sottosegretario all’Istruzione nel Governo Renzi e poi come direttore dell’Agenzia del Demanio.

Presidente, cominciamo dalla domanda che facciamo a tutti i nostri interlocutori: a che cosa serve la filantropia in Italia?

Ci dovremmo chiedere piuttosto che tipo di filantropia serve all’Italia. Nel nostro Paese la filantropia si trova ancora troppo spesso a intervenire per sanare ‘emergenze’ che non sono vere emergenze, quanto l’effetto prevedibile di situazioni croniche disfunzionali. L’esempio tipico è quello dell’alluvione: un evento parossistico di un ben noto dissesto idrogeologico. Questo tipo di filantropia tampona i danni senza agire sulle cause e induce a procrastinare gli interventi strutturali. Quello che serve davvero all’Italia è una filantropia con la capacità e la visione per intervenire sul dissesto, focalizzata sul medio e lungo periodo al fine di ridurre le disuguaglianze sociali, culturali, di accesso alle cure e ai servizi. Un obiettivo proprio anche della politica e ad altri soggetti pubblici e privati, rispetto ai quali la filantropia si muove con diversi vantaggi.

Spieghiamoli bene, presidente.

Certo, la filantropia ha il bene comune come priorità assoluta, e senza distrazioni; non deve guardare al consenso come la politica; ha meno vincoli burocratici rispetto al pubblico. Gli enti filantropici sono i corpi intermedi agili e indipendenti, nella condizione ideale per promuovere la definizione di strategie condivise, catalizzare risorse, costruire reti ed ecosistemi funzionali a realizzare giustizia sociale e sviluppo sostenibile. Le Fondazioni di origine bancaria negli ultimi anni stanno lavorando molto per esercitare questo ruolo in modo sempre più efficace, rivedendo i propri statuti, potenziando le strutture operative, dotandosi di governance con capacità ‘imprenditoriali’.

Quale progetto, secondo lei, incarna meglio quello che Fondazione Piacenza e Vigevano è e quello che volete fare nei prossimi anni?

Senza dubbio il recupero dell’ex convento di Santa Chiara, un complesso rinascimentale di circa 12mila metri quadrati (8.500 dei quali di area verde) nel centro di Piacenza, di proprietà della Fondazione, in cui nasceranno uno studentato, una struttura per il social housing e un’area aperta alla città che ospiterà eventi e iniziative di aggregazione.

Il complesso di Santa Chiara a Piacenza, teatro di un grande intervento di rigenerazione urbana sostenuto da Fondazione Piacenza e Vigevano

Perché è importante?

Fra welfare, istruzione e cultura, il progetto interessa tutti gli ambiti d’azione della nostra Fondazione e concorre a dare risposta ad alcuni bisogni prioritari nel nostro programma: incrementare l’offerta universitaria a Piacenza, lavorare sul ‘dopo di noi’, restituire beni architettonici dismessi alla comunità. Ma non solo: arrivare al punto in cui siamo (la conclusione di un iter autorizzativo tortuoso che ci avvicina all’inizio dei lavori) ha richiesto uno straordinario impegno in termini di progettazione: degli spazi e dei servizi, in dialogo con la Soprintendenza, il Terzo Settore, le Università, ma soprattutto dell’architettura finanziaria dell’operazione, in termini di recupero dei capitali e nell’ottica della sua sostenibilità. Si parla di un progetto dal costo stimato di 25 milioni di euro, che coinvolge investitori istituzionali nazionali.

Acri, collabora sempre più spesso con le altre fondazioni filantropiche, quelle familiari o di impresa del mondo Assifero.  Lei stesso siede anche nel consiglio di Fondazione Cdp. Lei vede per la filantropia un futuro di collaborazione col resto del mondo filantropico e, più in generale, col Terzo settore?

Sono convinto che sia l’unica strada sostenibile. Ogni volta che un problema viene affrontato su scale e da realtà differenti, che non dialogano fra loro, si realizza una perdita di risorse, opportunità, possibili soluzioni, che di questi tempi non possiamo permetterci. Mi creda, partecipare attivamente a molti tavoli è faticoso, ma quando si tira la riga il bilancio fra le energie spese e il ritorno che ne deriva, in termini di idee, soluzioni e visione, è sempre positivo.

Reggi, lei ha una grande esperienza politico-amministrativa: ha fatto il sindaco, il sottosegretario, direttore del Demanio. Quanto questo suo background è stato ed è importante in ambito filantropico?

Fare il sindaco è stata l’avventura più faticosa, appassionante e formativa della mia vita. Dà il privilegio di conoscere palmo a palmo le caratteristiche, le criticità e le potenzialità del territorio e il funzionamento dei meccanismi che lo governano. Poi è un lavoro di squadra, che implica l’elaborazione di una visione condivisa, allena la capacità di mediare e insieme di decidere, e soprattutto obbliga a sviscerare i singoli problemi, cercando soluzioni creative per superare ostacoli di ogni tipo. Sono competenze che non si possono acquisire sui libri, e che mi tornano utili ogni giorno, ora che sono alla guida di un ente filantropico che ha come territorio di riferimento Piacenza e Vigevano. Così come utili sono le esperienze maturate nei livelli amministrativi nazionali, che offrono una visione dell’insieme e danno accesso a relazioni e meccanismi necessari a dare forma a progetti che abbiano un impatto davvero significativo sul territorio.

Un giovanissimo Roberto Reggi, educatore in parrocchia a Piacenza

Ci sono o ci sono state letture, opere, incontri, che hanno maggiormente formato la sua idea di filantropia?

È stata l’obiezione di coscienza al servizio militare e il servizio civile in Caritas a forgiare la mia idea di filantropia. Al fianco di adolescenti in stato di disagio, di sacerdoti illuminati e di giovani che come me credevano in modalità non violente di risolvere i conflitti, ho maturato, con grande concretezza, la mia idea di filantropia che non può accontentarsi di agire sulle emergenze, ma deve individuare e contrastare le cause con la visione e la determinazione del medio-lungo periodo.

Scopri i numeri della filantropia e i 100 profili di chi investe nel bene comune su VITA magazine di ottobre ‘‘Nella testa dei filantropi

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