Marisa Parmigiani

Le fondazioni? Devono innovare perché possono permettersi di sperimentare

di Nicola Varcasia

La parola alla direttrice di Unipolis, la fondazione d’impresa del Gruppo Unipol che realizza iniziative di responsabilità sociale, nel quadro della più ampia strategia di sostenibilità della Società: «Credo in una filantropia chiamata a intervenire là dove lo Stato non riesce ad arrivare, in particolare nei processi di innovazione»

Nel numero di ottobre dedicato ai filantropi, VITA magazine, disponibile qui, ha voluto raccontare alcuni protagonisti di questo vasto movimento che investe o eroga in Italia almeno 2 miliardi di euro ogni anno. 

Nono possono essere messi in competizione, il welfare statale e le attività filantropiche strutturate. Sono due elementi che vanno visti insieme e messi nella giusta correlazione. Marisa Parmigiani, direttrice di Unipolis, la fondazione d’impresa del Gruppo Unipol, ha le idee molto chiare su come sviluppare questa interrelazione.

A che cosa serve la filantropia in Italia, quale ruolo potrebbe ambire ad avere?

La filantropia può essere vista come un’integrazione importante al sistema del welfare. Tuttavia, non è ancora sufficientemente integrata in una logica di partnership pubblico-privato. Ad esempio, la riforma del Terzo settore promuove i processi di co-programmazione e, in qualche misura, di co-progettazione ma, come ha confermato una recente indagine della Fondazione Terzjus sostenuta da noi, siamo ancora lontani da risultati efficienti ed efficaci.

Qual è la prospettiva per il futuro?

Quella di una filantropia capace di abilitare il Terzo settore nel supportare il welfare pubblico che, nostro malgrado, è in contrazione. Non credo in una filantropia all’americana in cui perfino il supporto ai più fragili tenda a essere privatizzato, anzi. Credo invece in una filantropia chiamata a intervenire là dove lo Stato non riesce ad arrivare, in particolare nei processi di innovazione.

Perché?

Perché può permettersi di sperimentare e, al limite, anche di fallire. Senza l’obbligo giuridico di rendere conto ai cittadini-elettori dell’utilizzo di risorse private in quei processi che potrebbero non aver funzionato. Occorre, però, permettere a tali sperimentazioni filantropiche di essere assunte e scalate dal pubblico, in modo da acquisire una dimensione nazionale. Questa è la sfida che ci attende.

In quali aree di intervento vi immaginate più presenti nei prossimi dieci anni?

La partecipazione al Forum disuguaglianze diversità ci ha dato, negli anni, una consapevolezza crescente sui temi, con svariati spunti di azione. Per il futuro, vedo il nostro impegno sempre più concentrato in questa lotta, soprattutto in termini di empowerment. Non crediamo, infatti, che le diseguaglianze si combattano solo distribuendo risorse economiche, ma abilitando le persone a essere protagoniste del loro futuro.

Prevedere con certezza gli ambiti in cui saranno più numerosi i soggetti più fragili è difficile. Vista la carenza di politiche attive in merito, temiamo sarà ancora molto urgente la questione migrazioni. Così come il fenomeno della povertà infantile. Mi auguro che sarà meno pressante l’urgenza sul tema donne.

Nel suo ruolo direzionale, essere manager la aiuta nelle decisioni?

Il fulcro dei nostri processi decisionali, ispirati a un principio di collegialità, è la Presidenza, con la partecipazione di tutte le figure apicali. A livello di mia specifica professionalità, il mio arrivo nel 2017 si è contraddistinto per l’obiettivo di trasformare il modo d’agire della Fondazione. Siamo passati da un modello più simile a quello di un’associazione culturale a quello di un’organizzazione strutturata, con coerenze importanti tra obiettivi e azioni, modelli di misurazione accurati e puntuali e una forte attenzione all’impatto.

Qual è la ragione di fondo di questa impostazione?

Lavorare in filantropia è molto complesso. Si ascoltano molte storie e situazioni, con il desiderio di poter fare qualcosa per tutti. Per dare un’idea, al Bando Act sono arrivate più di 700 proposte e ne dovremo selezionare cinque. L’insistenza sulla valutazione d’impatto ci consente di utilizzare criteri il più possibile oggettivi e non emozionali nei processi di selezione.

Qual è il progetto che attualmente rappresenta meglio lo spirito di Fondazione Unipolis?

Senz’altro il percorso Bella storia. La tua, giunto alla seconda edizione e destinato a 50 giovani di Calabria e Campania. Lo consideriamo emblematico proprio perché fa empowerment verso coloro che lo meritano ma che hanno poche chance a disposizione.

Come?

Viviamo in un Paese con sempre meno adolescenti e che non adotta politiche per loro, nonostante siano stati la generazione più schiacciata dal Covid. Il progetto coglie perciò il bisogno di soggetti trascurati dal welfare pubblico supportando chi vive nei contesti più deprivati del Paese.

Quali sono le modalità?

Selezioniamo 50 ragazze e ragazzi con un buon rendimento scolastico, ma provenienti da famiglie a basso reddito. Privilegiamo chi ha genitori senza storie scolastiche significative alle spalle per accompagnare l’ascensore sociale che nel nostro Paese è fermo. In questi gruppi ci sono anche delle seconde generazioni di immigrati, che portano ulteriori elementi di complessità. Il contributo economico che eroghiamo è veicolato alla loro crescita: non si limita alle spese scolastiche, ma offre la possibilità di completare il proprio percorso, ad esempio studiando all’estero per diventare quella generazione europea che altrimenti non sarebbero stati.

Che tipo di feedback avete ricevuto?

Nei camp che organizziamo per i ragazzi, praticamente tutti si sono sentiti aiutati a imparare a parlare in pubblico, a relazionarsi con gli adulti, ad affermare le proprie idee e, in un processo di community engagement a diventare attori nel proprio territorio. Quindi non avremo solo ragazzi più orientati al proprio futuro, ma anche cittadini più partecipi e attivi.

Come è cambiato il rapporto con le associazioni che supportate?

Siamo partiti, come normalmente accade in questi casi, erogando delle risorse al Terzo settore affinché “facesse”. Oggi, siamo sempre più orientati al fare con e il Terzo Settore è partner di nostri progetti. Noi svolgiamo il ruolo di project manager di progetto, condividendo obiettivi, scelte e modelli di valutazione d’impatto.

Come considera il modello seguito negli Stati Uniti da McKenzie Scott, con vaste elargizioni senza alcun tipo di rendicontazione?

In generale, la rendicontazione che richiediamo è quella di impatto. Per tutte le ragioni accennate prima, il nostro interesse è focalizzato primariamente sul raggiungimento degli obiettivi concordati, più che sulla singola spesa.

Concludiamo con due incontri che hanno contribuito a formare la sua visione filantropica.

Vorrei citare due momenti molto distanti tra loro. Il primo risale a 35 anni fa, quando facevo la volontaria a Exodus. Don Mazzi non ci chiedeva di portare soldi o di “piantare le piantine” in giardino, ma di trasmettere ai ragazzi il nostro modo di pensare, i nostri modelli culturali, le nostre conoscenze. Anche per questo sono diventata una grande fautrice del volontariato di competenze.

Il secondo momento?

Più di recente, le conversazioni con Carola Carazzone e Paolo Venturi (direttori rispettivamente di Assifero e Aiccon, ndr). Due persone visionarie che mi hanno aiutato a cogliere elementi di innovazione nella filantropia, senza trascurare le difficoltà di gestione pratica delle singole sfide.

In apertura Marisa Parmigiani, foto da ufficio stampa

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